Ha il sapore di
un viaggio iniziatico quello vissuto da Aurelio ed Erminia nel romanzo di
Giancarlo Micheli intitolato Indie occidentali.
L’ambientazione storica è quella dei primi anni del novecento, descritti con il
loro carico di sofferenza e di precarietà che spinsero una moltitudine di
immigrati provenienti dall’Italia, dalla Germania, dalla Scandinavia e
dall’Europa dell’est a riversarsi ad Ellis Island. I protagonisti di questa
storia non appartengono tuttavia alla massa di disadattati che attraversarono le
sponde dell’Atlantico. Essi hanno le risorse sufficienti per intraprendere
un’attività, una volta giunti a destinazione. A spingerli ad abbandonare dietro
di sé il proprio passato, il proprio luogo di origine – la Valle del Serchio – è
piuttosto il desiderio di progredire e di assicurare un futuro migliore alla
loro bambina, la piccola Eugenia.
È in Mulberry
Street che comincia la loro avventura, in quel bar al quale si accede “per un
ingresso invero poco appariscente” all’interno del quale si muove agilmente la
figura di Ernesto, il garzone dal volto pallido e glabro, considerato da tutti
un fannullone.
Lì, tra
avventori intorpiditi nei cappotti, dai volti paonazzi, ilari e gioviali,
comincia il loro percorso che li porterà ad affidarsi delle persone sbagliate e
a conoscere la violenza e l’ efferatezza che si celano tra le maglie della
società che li ha accolti.
Perché ci sia iniziazione è necessaria
però la presa di coscienza di sé, la totale consapevolezza del proprio ruolo di
attori nel corso della storia. È ciò che accade anche ad Aurelio ed Erminia
lungo la narrazione, quando verranno coinvolti nei tumulti della classe operaia
che imperversano a partire dal Colorado. È molto bella a tale riguardo
l’immagine del protagonista maschile, intento a vigilare, “in un brumoso mattino
di marzo”, affinché nessuno scioperante, allettato dalle proposte del proprio
padrone riesca a varcare i cancelli della Lambert&Dexter.
Romanzo realista, questo di Micheli è costruito con molta meticolosità e
attenzione nei confronti dei sentimenti umani. Pecca talvolta nello stile,
dominato da eccessivi anglicismi e da costruzioni ridondanti come “lapidea
freddezza…” (p. 65), “apicale tremore…” (p. 162) che rischiano di inficiare una
narrazione dal contenuto originale e da un finale a sorpresa che il lettore
potrà conoscere abbandonandosi alla lettura del libro.
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