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Ippolito Nievo nella sospensione del presente

In regime di continuità due volte appaiono i riferimenti a Un’altra vita: il primo come apertura verso un’altra vita che attende il protagonista dopo la seconda navigazione ed è un’altra vita di speranze e di rimpianti; il secondo proprio alla fine del romanzo ed indica il dischiudersi di un’altra dimensione oltre la morte.

E, appunto su queste due coordinate si muove la narrazione, che, al di là degli esiti conseguiti dal libro di racconti di Ruffilli Un’altra vita (2010) spalanca quella porta chiusa del mistero oltre la quale Ippolito “intravedeva: figure e forme note, eppure un mondo sconosciuto che lo attirava facendo concorrenza a tutto quello che si lasciava dietro”.

E, all’interno di questo movimento verso una ricerca di senso che culmina nella tensione della tempesta di mare rappresentata con partecipazione ed eccezionale perizia così da superare quella di “Tifone” di Conrad, si dipana la vicenda di un garibaldino puro, senza macchia e senza paura, che già Ruffilli ha affrontato in una Vita di Ippolito Nievo (1991) e la cui ripresa tempestiva nel 2011 ha una significazione diversa: si muove all’interno delle celebrazioni del 150 anniversario dell’Unità d’Italia e continua quell’iter – quasi navigazione – dentro il disvelamento del mistero dell’amore, che nel romanzo sembra concretizzarsi nella ricerca dell’unità tra corpo e spirito, tra amore e passione e – direi – tra amore e morte.

I riferimenti storici s’inquadrano in un periodo poco pubblicizzato: il trapasso dall’amministrazione garibaldina a quella piemontese e alla situazione di esclusione dei garibaldini, in parte accennata da Tomasi di Lampedusa in Il Gattopardo in riferimento all’impresa posteriore di Garibaldi in Calabria.

In una Sicilia ricostruita attraverso le memorie di Dumas e forse anche attraverso quelle autobiografiche Ruffilli mostra la situazione di colonia dell’isola, il gattopardesco sonno dei suoi abitanti, ma, nello stesso tempo, la sua dignità contrapposta allo sfrenato desiderio di piacere di Napoli immersa in un prolungato carnevale.

Ma anche in Sicilia appare quel desiderio di truffare, di mascherarsi, di questuare a cui Ippolito ha cercato di apporre un freno come Intendente dell’isola, per nulla disposto a compromessi.

E, con un lunghissimo flash-back, durante la prima navigazione a cui il protagonista è costretto per recuperare a Palermo tutti i documenti contabili della sua amministrazione e per dimostrare, nel contempo, la limpidezza della dittatura garibaldina, Ippolito Nievo rammenta la sua vita passata, l’amore per la scrittura, il dolore per la mancata pubblicazione del suo romanzo respinto dagli editori, il suo amore per Bice quasi confinato in una zona di sospensione, la sua fede garibaldina.

No. Nessuna sospensione è possibile perché il tempo divora tutto.

Eppure quel momento in cui Ippolito scopre che l’amore può coincidere con la passione, quel momento in cui Nievo identifica l’isola – l’isola sfruttata e abbandonata – con la scoperta della felicità e la pienezza della vita, proprio quel momento sembra bastargli perché è più importante il viaggio e non la meta.

E poi tutto passa.

Così avviene quell’immersione nel presente previsto dal Tao, il momento di sospensione tra il pieno e il vuoto, tra la vita e la morte.

Così si conclude la vita di Ippolito Nievo. Poi l’affondamento della nave nella seconda navigazione e la morte.

Fu un omicidio di Stato?

Ruffilli non se lo chiede.

Fu la vicenda di un patriota che ha creduto nell’unità d’Italia a cui ha dedicato la sua breve vita.
Recensione
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