|
Natura morta
Sintesi di tutta l’attività letteraria di Paolo Ruffilli Natura morta sistematizza principi disseminati in precedenti opere in poesia e in prosa: il paradosso nei racconti Preparativi per la partenza (2003), il pieno e il vuoto nel poema La gioia e il lutto (2001) e in Le Choses du monde (2006 traduzione in francese delle raccolte Diario di Normandia, L’assedio di Costantinopoli, Nuvole e di 10 poesie inedite), la presenza e l’assenza nei racconti di Un’altra vita (2010) e in Affari di cuore (Poesie 2011) l’eterno presente in Le stanze del cielo (Poesie 2008) e nel romanzo L’isola e il sogno (2012). Tale trattazione è la compattazione di tali frammentarie tematiche – espresse nei testi citati sotto forma di metafora – e di altre che coinvolgono anche processi fisici, psichici, letterari non saldabili per l’impossibilità per l’uomo contemporaneo di accedere a una visione unitaria del reale.
Tale principio sapienziale orientale, anche se poggia su fondamenti diversi, dà esiti simili a quelli della filosofia occidentale: il sapere di non sapere socratico e la consequenziale ricerca della verità. Gli antecedenti filosofici e letterari occidentali di Natura morta sono molto lontani nel tempo: il De rerum natura di Lucrezio e il Perì Fíuseos dei presocratici. Autori più recenti appartengono alla fenomenologia novecentesca. Tuttavia l’innovazione sta nella sintesi di filosofia orientale e occidentale, ma soprattutto nella coincidenza tra i principi scientifici di materia e antimateria e quelli del pieno e del vuoto del Tao, che sono i principi stessi della vita come respiro di vita nel pieno dell’inspirazione e nel vuoto della espirazione, su cui si fonda il Piccolo inventario delle cose notevoli accluso da Paolo Ruffilli alla fine del poema intitolato Natura morta, preceduto da un Prologo, da Preliminari e da Interrogativi. La chiave di lettura di tale complessa orchestrazione non è pedissequamente suggerita nell’appendice in prosa Appunti per un’ipotesi di poetica, in cui il poeta, pur rispettando la polisemicità del testo poetico, sintetizza alcuni aspetti della sua attività letteraria a partire dalla raccolta poetica Camera oscura – al cui inizio ha posto un’osservazione – che è un’interpretazione – di Roland Barthes: “Per voi, non sarebbe altro che una foto indifferente… per voi, in essa, non ci sarebbe nessuna ferita”. Anche se suoi maestri sono stati i grandi linguisti Roland Barthes, Luigi Heilmann, Noam Chomsky, Ruffilli non si limita a seguirne la lezione, ma approfondisce, in modo originale, la natura e la funzione della lingua, che è non solo un flusso chimico-elettrico, ma è soprattutto un flusso energetico proveniente da un serbatoio più grande, quello della natura in continua espansione e contrazione. Da tale visione scaturisce l’importanza del nominare nella cosmogonia di Natura morta. Così vi è rappresentato il passaggio dal caos primigenio e dal vuoto alla concretezza del cosmo: Senza nome è l’inizio | del cielo e della terra | con il nome è la madre | generosa di ogni cosa | e, chiamandola le dà | forma nel concreto | e sgrezza senza posa | la materia generata | dal soffio di energia | che scivolando via | fa ogni volta singolare | la totalità indifferenziata. La materia, quindi, non è morta come nei quadri degli artisti barocchi o novecenteschi – per es. Caravaggio e Morandi – , ma è viva perché generata | dal soffio di energia , e, come tale può essere solo rappresentata dal nome, che ha filamenti lunghi, espressione di quel fuoco liquido eruttato | dentro ognuna | singola entità | : è la poesia che ha dato | soffio e corpo musicale | alle cose sconosciute richiamandole così | come fuori da se stesse | dentro il ritmo cadenzato… Il nome, quindi, e la poesia consequenzalmente sono l’arché della nuova e originale cosmogonia cantata da Ruffilli? È questo il nuovo fondamento su cui fondare una nuova filosofia che sia l’uscita di sicurezza dell’impasse della crisi dei massimi sistemi? In Appunti per un’ipotesi di poetica Ruffilli afferma: “La poesia è avventura mentale. Continua ad esserlo. E non si preoccupa di nient’altro che di essere fedele a se stessa. Senza curarsi della “sostanza materiale dell’esperienza” forse perché oggi ha la coscienza che la materia è energia, anzi energia decaduta”. Se, quindi, la poesia non mira alla percezione del dato esperienziale né alla sua appercezione, si cura, invece, secondo il poeta, del costante processo d’intellettualizzazione della realtà e, quindi, della natura. Sicchè il poeta ragionerà in versi, come sostiene Leopardi (cfr. “Le operette morali” leopardiane curate da Ruffilli). In tale processo d’intellettualizzazione, però, Ruffilli non segue i tradizionali principi della logica concettuale – che, adusa a organizzare e dominare, organizza il reale secondo il principio di causalità, illusa di poter ordinare il caos riconducendolo razionalmente alle categorie concettuali e di poter persino così spiegare il sentimento l’emozione musica interiore – , ma scopre il principio di contraddizione, che è la molla di tutto dentro l’unità. Chi pratica la vera razionalità scopre il vuoto, che è il vuoto del silenzio, la vera vita assente e antimaterica impronta dell’inessente a ogni essere pieno e consistente. La chiamata viene proprio dal silenzio (e non dal nome) che riconsegna forma e consistenza all’essere esistente. Non esiste un’arte già definita, ma tutto è mutevole. Non esiste differenza tra attività teoretica e pratica perché concreto e astratto nascono insieme. Ne risulta che il fondamento dell’intero poema è il principio di non contraddizione. Tale principio mette in moto il divenire della vita, quel pànta rei eracliteo che coincide con la costante metamorfosi, crescita e inglobamento del tempo nel continuum del presente. Ne è esemplare rappresentazione il testo Il presente: Chi è che | Il sogno e il desiderio | l’attesa e la speranza | aspettano intrepidi | fantasticando | che venga finalmente | a liberarli | per rendere all’essente | ogni virtù | dell’assoluto coincidente | la sua sostanza | di unico ed eterno | del presente? Testo che illumina l’inarrestabile divenire è il seguente: Ma la natura morta | non è senza vita: | tutto si trasforma | senza cessare di essere | in una rotazione | mai finita | e niente può restare | in uno stesso stato | per il processo | dal cammino continuato. | Ognuno nasce | per tornare alle radici | e incontrare lì | il suo destino | che è quello di durare | anche nell’assenza | per la permanenza | del principio. In tale flusso permanente non c’è morte perché esiste solo coincidenza tra i due opposti: il pieno e il vuoto, la materia e l’antimateria, l’essere e il non essere. Non c’è nichilismo perché l’essere, pur se mutevole, permane per la permanenza | del principio. Se, quindi, la mutevolezza contraddittoria è il fondamento della conoscenza, dell’arte, della scienza, della filosofia e della vita, quale ipotesi di lavoro teorizzare? Le vie sono tre: imitazione, espressione, rappresentazione. Esplicitati tali preliminari, Ruffilli, nella seconda sezione, passa agli interrogativi. Si chiede, infatti, come dall’astrazione, dal vuoto, dall’inconsistenza e, quindi, dall’inaudibile, dall’impalpabile, dall’invisibile possano procedere i sensi come l’udito, il tatto e la vista, che, a loro volta, possono dare forma a una negazione. La terza sezione Natura morta, incentrata su temi fondamentali – il tempo, il nome, il sapere – è un inno alla flessibilità. Secondo il libro della vita e della virtù, resiste solo ciò che cede e ciò che non si piega giace stroncato. Nulla, infatti, è fisso, ma l’intermittenza è il vero passo | che tiene e usa il mondo. All’interno di tali principi Ruffilli enuncia altri principi: quello dell’inversamente proporzionale – ciò che è piccolo | contiene il grande: | nella figura | c’è l’idea compiuta intera | il minimo raccoglie | l’infinito, l’effimero | l’eterno, e il suo creatore | la creatura – e la teoria della contraddizione applicata al peso, al mezzo, al tempo, al caso – il peso è la matrice | incontro, del leggero | il moto è la radice | della tranquillità | il mezzo è la cornice | del tutto intero | come il vuoto è | l’inutilità vera del vaso | il tempo è il senso | e il ritmo del caso | e il caso è un nome | della necessità. Della bipolarità pieno-vuoto è impastato anche il nome – dal nome si protende | ciò che non ha nome. E Ruffilli argomenta: Di non essere | è impastata ogni cosa | e la sostanza del mondo | scivola sul vuoto. | E’ una deriva che conduce alla morte o alla rinascita o alla conservazione come metamorfosi? Ciò che muta continua ad essere? Non si trasforma forse la materia in antimateria? E nella parte dedicata al Sapere il poeta non solo sconfessa qualsiasi possibilità di conoscenza perché tutto | è sempre immaginato | e niente mai si sa | , ma afferma che il sublime è sapere di non sapere. Tale verità immaginata espressa nel poema non si avvale del mel della poesia spalmato sui bordi di una tazza contenente una filosofia ostica – come quella epicurea nel De rerum natura di Lucrezio – , ma è poesia in sé perché, come in Pessoa, è poesia come stato ritmico del pensiero: è musica del pensiero, come deduce Ruffilli in Appunti per una ipotesi di poetica. E’ musica che nasce dall’opposizione riconciliata in armonia proprio all’interno del dualismo del pieno e del vuoto in un incastro indissolubile e mutevole. Una musica non elegiaca, ma una musica che, seguendo la musicalità dei libretti di opera di Da Ponte, come il poeta stesso dichiara, consegue una cantabilità impastata d’amara ironia, una musica quasi da canzonetta metastasiana, che attinge il sublime nella sua ambigua leggerezza, sull’onda di un pensiero che nel suo ritmo contiene il suo contrario: la possibilità del silenzio. |
|
|