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Un'altra vitaMolto complesso è il penultimo libro di Paolo Ruffilli che sembra offrire un’immediata chiave di lettura già nel sottotitolo esibito “20 storie d’amore verso un’altra vita”, ma che glissa, immediatamente dopo, nell’exergo dedicato a Pessoa: nell’interpretazione della natura notte e vento sono ombre di vita, ombre di pensiero. Il libro appare, quindi, ad una prima lettura, una sfuggente metafora del tempo scandito nei quattro ritmi stagionali. E di scansione in scansione si dipana una ricca numerologia che si rifà ai multipli di quattro: il racconto è scandito in otto parti – l’otto è il doppio di quattro ogni sezione dedicata ad una stagione ingloba cinque racconti, che, moltiplicati per quattro, sono venti.
Tale ossessiva numerologia se, da una parte, suggerisce una geometrica, reticolare scansione di tempi, dall’altra rivela una maniacale e kafkiana atmosfera oppressiva come il fitto reticolo di convenzioni in cui ogni uomo è imprigionato – e chiaro è il rimando a Le stanze del cielo – e come il destino di morte a cui ogni uomo è soggetto. Non resta che l’alternativa della fuga in un’altra vita per sfuggire alla chiusura e alla prigione del quotidiano inseguendo un corpo a corpo con l’amore-passione che, talvolta, è capriccio, evasione, paradosso, ricerca di libertà o di un’identità sfuggente, innamoramento dell’amore, rievocazione di atmosfere ecc., ecc…, secondo quella ricca casistica da Ruffilli già sperimentata nei precedenti racconti Preparativi per la partenza. L’atmosfera greve che avvolge i personaggi appartenenti quasi tutti all’alta borghesia sembra rievocare quella moraviana, ma per Ruffilli è quella si Hesse, di Musil, di Proust: un’atmosfera di decadenza che non si risolve in uno slancio verso un mondo nuovo da creare anche per gli altri, ma si attorce attorno a un quotidiano tattile che vorrebbe risolvere tutto – la ricerca della felicità, la paura della morte, la noia, la delusione, l’angoscia, la paura della vita, l’insoddisfazione – con una soluzione puramente corporale, che appare come atto di coraggio nel superamento di quell’atmosfera di oppressione metaforizzata nel testo attraverso la rappresentazione dell’estate rovente a cui segue il tempo dei frutti autunnali. Emblematica è la riflessione della protagonista di La passione delle idee, racconto dedicato a Elsa Morante: “Ma come si poteva amare tutti quanti se non si era capaci di amare uno preso da solo e misurarsi con lui in un corpo a corpo quotidiano?” L’amore a pelle sembra, infatti, la soluzione di un’altra vita non soggetta alla costrizione di astratte utopie e di idee che dividono. Non ci si pone mai, in tali testi, l’esigenza di affinità elettive, ma solo una tensione verso una carnale coincidentia oppositorum. E l’inadeguatezza di tali soluzioni per sfuggire al nulla è sottolineata da Ruffilli con una musicalità che tracima e prorompe oltre il canonico discrimine tra prosa e poesia, con una cantabilità, che è parodia del dramma vissuto da creature prigioniere di se stesse e autoliberatesi più per egoismo che per coraggio transitando dall’inverno dell’amore – che con il suo impeto tutto travolge – verso una primavera di resurrezione, secondo lo schema di La gioia e il lutto e la regola del Tao – già tradotto in versi, a suo tempo, da Ruffilli – come oscillazione tra pieno e vuoto e il suo contrario, ma deprivate in Un’altra vita di ogni significazione mistica o trascendentale. La pienezza è, infatti, secondo il Tao, più nel vuoto che nel pieno, più nell’assenza che nella presenza. Nel racconto Assente il corpo, dedicato a Emily Dickinson, Paolo Ruffilli scrive: “Tu mi scrivi, teorizzando, che il più alto grado di presenza è, in realtà, l’assenza”. Tale affermazione, inserita in un testo volutamente più astratto, non perde il suo carattere eversivo né vuole sottolineare una variazione del tema dell’amore: quello privo di corpo perché impossibile. La mistica affermazione taoista, in tale testo coinvolge gli assenti e i trapassati. “Quando scrivo, mi siedono accanto ospiti da me non invitati. Alcuni silenziosi o muti, altri non più di questa vita. Assenti, invece, tutti i vivi compresi quelli che amo come te”. E in tale racconto, tra le righe in corsivo, appare – un po’ celata – la poetica dello scrittore – quella attuale nella cangiante e inquieta arte di Ruffilli. “Ormai da vecchi ci si dovrebbe meritare il dono di una parola che è perfetta, perché da giovani comunque la vita regala vita in ogni giorno. Per questo ho lavorato a liberare dai sedimenti secolari la parola amore, a farla nuova, a una distanza siderale dalla poesia del cinema e dai libri.” Se l’unico obiettivo conseguibile è, quindi, la perfezione dell’arte, è proprio vero che gli unici vivi sono i trapassati: gli scrittori e i poeti a cui Ruffilli dedica, di volta in volta, i suoi racconti: Joyce, Čechov, Proust, Hemingway, Dickinson, Morante, Pavese, Hesse, Mansfield, Kafka, Musil, Pirandello, James, Guy de Maupassant, Woolf, Ortese. E l’unica sopravvivenza possibile è quella affidata all’arte. Così scrive Ruffilli evocando un turbinio di neve che somiglia a un quadro di Signac: “Nel suo disordine apparente il pulviscolo restituiva in modo più emotivo il disegno della realtà che si muoveva cambiando stato, luce e ora. In quel continuo trasformarsi della vita che dunque non lasciava mai niente consegnato a una distesa più di tanto dentro il tempo” (Sotto la neve, racconto dedicato a Kafka). E a tale visione quasi divisionista della realtà – e il richiamo alla pittura privilegiata, quella impressionista, appare in L’isola sul fiume, racconto che raggiunge i più alti vertici della perfezione formale – e, io direi, atomistica sembra rifarsi questo libro di racconti di Paolo Ruffilli perché – attraverso la frantumazione della scrittura in un genere letterario adeguato – e rinnovato nei suoi moduli tradizionali non solo con la suddivisione in otto parti, ma addirittura con la trasformazione di ogni racconto in un originale poemetto in prosa di eccezionale perfezione – attraverso tale pulviscolo si ricompone il nostro tempo per un tempo infinitesimale dentro il tempo, come accade nella scrittura di Virginia Woolf. L’angoscia per tale frammentarietà della vita e per la sua breve durata può essere superata dall’arte che la descrive e la fissa in un modo definitivo cogliendo l’attimo. Mi pare opportuno, però, indicare, come in ogni explicit che si rispetti, che vari potrebbero essere i livelli di lettura interpretativa di questo testo così sfuggente e apparentemente comunicativo nella sua eversiva e audace rappresentazione dell’eros. “Penso e scrivo perché diventino realtà le parole che danno un nome all’alto: le nuvole, le ali, il volo, gli angeli, le vette, il vento… Soltanto le parole aeree sanno la salvezza, perché quaggiù mai niente di elevato accade.”(Cfr. Assente il corpo) E’ questa solo ironia? E’ contestazione dell’assenza? E la poesia? E la contestazione dei generi letterari? |
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