| |
Ho letto più
volte Il silenzio del Lete di Francesco Di Bernardo, medico cardiologo
nativo di Mistretta (Messina), da diversi decenni residente a Pordenone, per
sincerarmi di una angosciosa impressione ricavata ad una prima frettolosa
lettura, suggestionato dal titolo e dall’immagine della copertina (particolare
della “Villa sul mare” di Arnold Bocklin) e da alcuni versi, fra i quali: “Forse
si sente solo la voce | Come un richiamo o grido | O lamento singhiozzato | Di
un invisibile gufo fra i cipressi | O una civetta mentre l’anima | In compagnia
di un’ombra lieve | scorre muta verso l’isola di Bocklin”.
Lo confesso:
nonostante i diversi passaggi non sono più riuscito a scrollarmi la impressione
che il libro, sia pure arricchito da diverse preziosità barocche, è pervaso da
un humus disperante. Quella sensazione che ciascuno vive accanto al feretro di
una persona cara. Una sensazione profonda che ti pervade tutto e ti conduce nel
tempo lontano che è stato tuo e ancora oltre. Ecco, l’autore descrive ciò con
abile regia, recuperando a flash-back scene di vita “Babette vendeva scarpe a
Portocervo | Io e Cosimo la conoscemmo in spiaggia | Mentre prendeva il sole |
Nuda coi suoi peletti biondi || Finita la stagione sarebbe ripartita | Girava
realmente per tutti i paradisi | Della terra così leggera | Da un’estate
all’altra”.
Un prologo
solare ma lontano nel tempo che mi viene da associare alla musica che apre il
secondo atto di “Thais, opera della maturità di Jules Massenet: la Meditation,
brano orchestrale di grande lirismo, trasognata poesia e intima religiosità. Ma,
sovente, i flussi dei ricordi si ritraggono come una marea meditando il destino
comune: “Quelli che alla stazione | Agitano la mano per salutare | Il treno che
parte hanno | La tristezza nel cuore | Nel vedersi lasciare | L’inferno per
questo | Sapere tutti i giorni | Come è bello vivere | E un giorno | doversene
andare” e mi viene da associare questa struttura del libro ad un altro
conosciuto brano della musica strumentale barocca: il “Canone a tre voci in re”
di Pachelbel, una melodia che è riecheggiata dalle altre voci e che sembra
distribuirsi in una serie di cerchi concentrici, cerchi che, nel libro, si
espandono in molteplici esperienze e si ritraggono e confluiscono nel
“nessundove”: “Ma non è nulla | Ora che agosto finisce e la tragedia | E tutto è
finito”.
E mi viene da
pensare ad un brano di musica classica che scoprii quando avevo circa vent’anni
nel juke – box di un bar: il Largo dall’opera Serse di Haendel, una melodia
struggente che mi piaceva molto, nonostante i vent’anni. Ma nonostante
somigliasse ad una melodia funerea (come diceva un mio amico che con me
sorseggiava un caffè caldo) era, invece, nell’intenzione dell’autore un canto
d’amore. Così come, tutto sommato, è “Il silenzio del Lete” di Francesco Maria
Di Bernardo Amato.
| |
|
Recensione |
|