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La produzione poetica di Lilia Slomp Ferrari in lingua italiana è, fino ad oggi, considerevole sia per quantità sia per qualità, altrettanto intensa e coinvolgente di quella in dialetto, anche se forse meno immediata, ma proprio per questo molto stimolante. Per comprendere il percorso poetico di Lilia in lingua è bene prendere come punto di partenza il suo primo libro Nonostante tutto del 1991 (tutti i testi di Lilia in italiano, che sono qui analizzati, fanno parte della collana diretta da R. Francescotti “Il picchio verde” ed edita da U.C.T.). E’ un testo di qualità già molto elevata, pur risentendo talvolta di influenze di altri autori, ricco, complesso in quanto frutto di una selezione accurata tra tutte le poesie scritte da Lilia fino alla data di pubblicazione.
La sua poesia, confessa ancora, è una “palla azzurra rimbalzante”, che sfugge spesso anche al suo controllo. E’ quindi un qualcosa non di statico, ma in continuo divenire che talvolta si eleva mentre in altre occasioni va a finire in spazi dove non tutti riescono a seguirla; si insinua, fruga, indaga nell’intimo dell’autrice, (che poi è anche il nostro) fin dove, a volte, ha timore lei stessa a seguirla. E tre sono le direzioni verso cui ci guida questa palla azzurra, quasi tre dimensioni distinte. La prima è quella relativa al sociale, agli accadimenti di una realtà che spesso ci turba, ci angoscia e dove la poesia diventa testimone di fatti tragici come il disastro di Cernobyl (“Paura”) o tra i “ Bimbi del Nicaragua”. La seconda dimensione nella quale la poesia di Lilia ci introduce è quella relativa alla sua realtà di donna, svelandoci così sentimenti, emozioni, e tutta un’umanità che è sì sua, ma un po’ anche nostra, di ogni lettore in quanto ha valenze e connotazioni universali. E questo lo fa con grande abilità, coinvolgendoci in modo diretto, talvolta esortativo. “Frugami” scrive senza preamboli, “nelle pieghe | più profonde. | Troverai”, promette, “tracce di miele | raddolcito nell’attesa.” In “Non lasciarti tentare” invita poi il lettore (oltre al destinatario della poesia, che lei solo conosce) a vivere comunque, senza lasciarsi fuorviare da verità fasulle, come le favole di luna, per non lasciarci sorprendere dall’incertezza dell’enigma (“gli sguardi smarriti | nel pozzo della notte”). Ci parla ancora della maternità, (“Mi farò nido”), della forza interiore necessaria per superare gli ostacoli della vita, (“Nel pianto del glicine”), del dolore individuale che avvicina alla passione di Cristo e quindi ad un dolore universale. (“Maddalena”) C’è poi la terza dimensione, oltre alle due citate, in cui Lilia ci trasporta con forza immaginifica ed è una dimensione che trascende la nostra realtà di persone inquadrate in un tempo e in uno spazio definiti e reali per avvicinarci all’intuizione della possibilità di un’altra esistenza, relativa ad avvenimenti vissuti in altre vite, precedenti a quella attuale: una dimensione misteriosa, quella del déja vu, ancora tutta da indagare (“Magia di un ritorno”).
Questo perché Lilia è sì donna, madre, moglie, sorella, amica… ma è anche profondamente, intimamente poeta. Chiari ed innumerevoli sono gli accenni a questo percorso poetico, dove la parola ricercata, coccolata, a volte sofferta si fa dono d’amore: “ Camminiamo ormai sul filo | di equilibri sottilissimi | tesi come l’orecchio di un sordo alla parola. E non udiamo suoni | ma solo sinfonia che la pelle | decifra al minimo richiamo. || Non è forse amore questo?” Ed ancora, in “Dissolvenza”: “un verso, un verso solo | dove poter alfine ritrovarsi | inebriarsi nella dissolvenza.” C’è, inoltre, una poesia emblematica relativa a questo argomento: “Quando il silenzio”, in cui il lettore si sente intimamente coinvolto, sempre al fianco della poetessa per questo tratto di vita lungo quaranta poesie e tre anni d’esistenza. Sono tre anni nei quali Lilia molto costruisce, ma ad altrettanto rinuncia ed in cui molto le viene tolto, come l’amore del fratello morto giovane e che ricorda in “Là dove tu sei”. Alla fine del percorso si arriva ad un congedo dal lettore che però è solo momentaneo, un addio solo apparente poiché negli ultimi tre versi della lirica conclusiva c’è un arrivederci, quasi una sfida a ritrovarsi per un nuovo eventuale percorso esistenziale e letterario: “Addio”.
Se cerchiamo sul vocabolario la definizione del termine “leggenda” si trova che è un “racconto di argomento per lo più religioso ed eroico, in cui fatti e personaggi, quando non siano immaginari, risultano amplificati ed alterati dalla fantasia e dalla tradizione, in una duplice esigenza di esaltazione ed esemplarità.” E questa è la leggenda che l’autrice scrive di se stessa, della sua vita, e di quella delle persone che le sono vissute accanto. Contrariamente però a quanto ci si aspetterebbe, non troviamo nella raccolta un intento celebrativo, esaltante, bensì critico. Nelle liriche, infatti, Lilia Slomp mette a fuoco ciò che è stato il suo passato in modo sincero, realistico, ed invita il lettore a fare altrettanto, a porsi di fronte a lei per un eventuale confronto, un leale duello nel caso che uno dei due barasse nella ricerca della verità. C’è qui un’analisi attenta del passato, dell’infanzia, della fanciullezza, che verso dopo verso vengono in gran parte smitizzate, come il suo rapporto col padre, un padre contadino che l’aveva avvicinata al mondo della natura in un’esistenza quasi simbiotica e col quale aveva stabilito una corrispondenza di affetti che lei forse aveva idealizzato. Al padre, alla sua morte, ha dedicato versi struggenti, nei quali il lutto diventa scandaglio dell’insondabile come in “Silenzi di pietra”, “Falciato il grano”, ”C’era una volta un re”. Ma allora, crollato il mito del padre, barattata (come ella stessa scrive) l’età dell’innocenza, inghiottita dalle stesse favole che le venivano raccontate, perduti affetti importantissimi, cos’è rimasto a Lilia? Ciò che le è rimasto è la sua realtà, la sua identità di donna-poeta che quegli stessi miti ormai crollati hanno contribuito a realizzare. E’ rimasta la sua forza interiore, la voglia e la consapevolezza di poter “reggere” comunque l’aratro “ per un solco” esistenziale e poetico tutto suo, mai calpestato da altri. E’ rimasta la forza per diventare fabbro che sa rendere le catene del dolore e delle avversità, dopo ogni colpo basso della vita, più leggere, come quelle che da bambina intrecciava dentro il grano (“Prigioniera”). Questi miti, in gran parte crollati, le hanno lasciato anche una sensibilità che le fa percepire “presenze” di persone che la seguono ancora, nonostante non ci siano più (“Silenzi di pietra”); una sensibilità che le fa intuire la possibile esistenza di quella dimensione trascendente la nostra realtà quotidiana e che già abbiamo trovato nel primo volume (“Castello”). Alla fine di tutto rimane lei, con la sua esperienza esistenziale e poetica, a volte deludente, a volte esaltante, preziosissima per ogni lettore se, al termine di questo percorso fatto assieme, potrà dire con Lilia: “Noi sappiamo i brividi strani | dell’autunno sulle foglie | l’attesa del sole | il tocco del fiocco | il fieno ed il profumo | dell’erba medica che l’accattone cieco | canta alle stagioni; “noi sappiamo” tutto ciò perché abbiamo fatto nostra la sua coinvolgente, straordinaria poesia. Circolo Culturale Cognola |
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