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Solitudo

Solitudo, l’ultima pubblicazione di Annamaria Cielo, è una raccolta di versi che testimonia, ancora una volta, la profonda sensibilità poetica e la grande abilità di scrittura dell’autrice.

Questo lo si intuisce già dal titolo che, scritto in latino, dona subito una valenza più ampia, quasi filosofica a questo termine, più che se fosse scritto in italiano. Esso richiama alla memoria, istintivamente, una vasta letteratura che nei secoli, attorno a questo stato d’animo, è stata prodotta da numerosissimi autori. Infatti, come non ricordare i versi di Francesco Petrarca - Solo e pensoso i più deserti campi / vo mesurando a passi lunghi e lenti -, o quelli di Emily Dickinson – Ognuno / il proprio ideale assoluto / deve raggiungere / da solo. / In solitudine, con il coraggio / di una vita di silenzi -,o ancora, più vicini a noi nel tempo, quelli conosciutissimi di Salvatore Quasimodo - Ognuno sta solo sul cuor della terra / trafitto da un raggio di sole: / ed è subito sera.-?

Eppure, la Solitudo di Annamaria Cielo è qualcosa di completamente personale ed unico che al tempo stesso sa acquisire una connotazione universale e che si può comprendere appieno solo seguendo un particolare percorso: quello, appunto, che ci viene proposto attraverso le pagine di questo testo originalissimo.

Ed è un percorso di vita quello che il lettore è invitato a fare, quasi guidato per mano dalla poetessa, e nel quale si riconosce con profonda commozione. Ognuno, infatti, può ritrovarsi in quella bimba che entra nella casa degli adulti, dove impara, baci e solitudine e dove poi Solitudine la stacca dal corpo famiglia, / com’è destino nel crescere. E questo accade proprio nel periodo importante dell’infanzia quando, già nella solitudine e grazie ad essa, la vita ci dona l’idea di un progetto iniziale, magari inconscio, magari ancora non ben distinto da quel sogno a cui la vita / pian piano ci “accorda”. Si tratta di una prima solitudine che ancora non sa quando le cose muoiono per sempre e che va seguendo un istinto a capriole / legato alla catena del sogno.

C’è poi il periodo delle nuove convergenze, quello della giovinezza, quando violenta è la stanchezza / se giovane di rabbia, quando si ha spesso la sensazione di affrontare il destino da soli e come se ci si scontrasse corpo a corpo con  corni di bestie / in disperata corsa, / in un dimentico di freno / per infilzare incrinare frantumare/ciò che umilia e crepita.

Ma poi arriva il tempo in cui l’annaffiatoio per la vita / è arrugginito e l’erba si fa tre volte più alta.

E’ durante questo cammino di vita che un po’ alla volta si dovrebbe imparare ad accogliere la nostra “solitudo”, soprattutto nei momenti di tempo libero dalle abituali occupazioni e preoccupazioni, quando l’otium, nell’accezione più propositiva del termine, prevale sul negotium; ossia quando, come suggerisce la stessa poetessa, nella solitudine, si ha la possibilità e la capacità di creare dentro di noi, nel nostro silenzio, il vuoto che si fa contenitore delle cose essenziali all’esistenza della vita stessa. Infatti, è proprio in questi momenti che la solitudine diventa feconda, come un campo arato nel profondo e nei cui solchi germogliano tenaci i semi di altri germogli di vita, di nuove prospettive.

La raccolta è inoltre un ricordo struggente e riconoscente al tempo stesso nei confronti dei genitori, del padre in particolare, verso la cui figura, la pietas della poetessa, intesa come rispetto e devozione filiale, si unisce ad un intenso sentimento d’amore, di riconoscenza ed anche di nostalgia.

Ogni singola parola poi, scelta con estrema cura, avvince e convince per singolarità e freschezza, dove allitterazioni si susseguono una all’altra legate tra loro e alla parola che fa da perno a un’intera lirica, se non addirittura alla parola chiave che dà il titolo all’intera raccolta.

Ne è un esempio la poesia preceduta dalle parole Difendo l’anima: nevica, e in cui l’autrice riesce a immergere il lettore in un’atmosfera da fiaba di montagna anche grazie all’allitterazione della lettera f ripetuta nelle parole fiato, fieno, fattorie, foglie, infarinate.

Così pure è nella lirica senza titolo che però a quello dell’intera raccolta ci riconduce, dove la lettera “s” si sussegue in molti termini come scuote, solo, semi, sonno, solchi, quasi a volerne rafforzare il concetto principale.

Non mancano poi le anafore come quella negazione Non ho, che quasi spiazza il lettore in quanto, da un concetto di privazione lo accosta poi ad un’opposta affermazione di possesso:

Non ho genitori; cielo e terra/ sono i miei genitori
Non ho potere divino; la lealtà/ è il mio potere.
Non ho nemici; l’imprudenza / è i miei nemici…
ecc…

E come non notare quell’anafora insistita, Solitudine, ripetuta ben sei volte in una sola lirica, quasi a specificare cos’è per l’autrice e quando si verifica questo stato d’animo?

Figure retoriche, queste appena accennate, che ci fanno anche capire il prezioso retroterra culturale di Annamaria Cielo e che riescono, assieme alla profondità dei concetti e dei sentimenti espressi, a fare di quest’ultimo libro una vera fonte poetica. Ad essa ci si può abbeverare pagina dopo pagina, riga dopo riga per placare anche la sete più forte di bellezza e meraviglia, tanto da lasciare scolpiti nel nostro animo versi che donano pure speranza nella vita, come quello che chiude l’intera raccolta e ricorda anche che in un opale di vetro possiamo sempre ritrovare la luce del sole.

Recensione
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