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E’ un’opera di intensa maturità artistica questo Inchiostro verde di Galeotti, che trascorrendo nella fluida portata della profonda leggerezza modale/tonale ci seduce e conduce attraverso la successione dei drammatici eventi, sentimenti e mutamenti quasi incompatibili con la rassicurante atmosfera della monotona/metodica ‘domesticità’ dell’inizio, ove subito incontriamo i due giovani protagonisti, Francesco e Katy – diretti entrambi al lavoro sul medesimo pullman mattutino – e la penna d’oro dall’ “inchiostro verde”, a Francesco donata dal nonno, reliquia di ‘vivaffettiva’ memoria e storia che egli custodisce sempre devotamente in tasca come un inseparabile amuleto di sostegno e conforto: quel sostegno e conforto cui dovrà vieppiù ricorrere scivolando sul piano inclinato della vita dove, pur nella circoscritta ambientazione spazio-temporale del romanzo, s’annoda e dirama il delta dei diversi e divergenti accadimenti che a quel probabile/prevedibile incontro mattutino succedono, mescendosi e sfociando in alto mare, al largo dal definit(iv)o attracco/approdo della inconvertibile soluzione, evasa ‘a sorpresa’ – come da sintomatico repertorio menottiano – nella sospensione dell’atteso ‘the end’.

Infatti, anche in questo romanzo breve – che del racconto accoglie la ‘concisiva’ pregnanza, e del romanzo conserva l’ampio respiro strutturale – l’A. si avvale del privilegiato bacino d’osservazione/esplorazione della insospettabile irrequietudine che sotterraneamente/segretamente innerva l’irreprensibile apparenza del vissuto personale e sociale nell’ordinaria/ordinata quotidianità che avvolge e coinvolge il protagonista, oscuro ‘travet’ della provincia fiorentina, disilluso collezionista di sogni e bisogni, che nella sua indolente, riservata mitezza, “non ama la musica, poco la pittura, e non è uno sportivo”, e “oltre al biliardo” ed a qualche solitaria passeggiata nei boschi vicini a casa, ordinatamente raccoglie i “francobolli dello Stato Pontificio”. Il quotidiano bacino di questa quotidianità, praticata senza intimità di convinzione e compartecipazione, offre ancora una volta a Galeotti il pretesto autoriale per narrare, con la mirata/mirabile acribia stilistica/semantica e la finissima sensibilità/capacità introspettiva che ben riconosciamo, una storia d’amore e morte dove, fra trasalimenti e intendimenti, passioni e maturazioni, tradimenti e mutamenti, tutto è in balìa dell’inaffidabile ‘baliatico’ del caso: un ‘caso oggettivo’, prima ed oltre del c.d. ‘destino’, i cui ‘e-motivati’ effetti inferiscono e determinano, indifferentemente /indipendentemente colludendo e/o spesso – come qui avviene – collidendo, con le attese e le risultanze delle scelte soggettive, in un gioco esaltante e/o frustrante che non conosce né pause né prevedibili cause, come nella realtà filmica di “Sleeding door”, paradigmatica pellicola d’un paio di lustri fa. E questo libro – e lo dico forte e chiaro senza tema di smentite – costituisce un saliente gradino miliare, che irradia la sua penumbratile fecondità dall’ ‘understatement’ dell’anti-protagonismo presenzialistico congenialmente prediletto da Galeotti quale consanguineo ‘milieau’ da cui la sua schiva, fattiva personalità esprime e persegue quell’etica/poetica coerenza umana e artistica che si espone ed espande rinnovandosi nella intensa, tersa ricorrenza della sua cospicua produzione letteraria di poesia e prosa, proprio in questi giorni addivenuta all’ultima opera dal titolo “Versi e racconti”: una produzione che sembra proprio – in questo, e soltanto in questo, come le azioni e reazioni sentimentali di Stefano – serbata e protetta, protesa ed effusa dal programmatico stigma impresso da quell’atavica penna, arca di affettiva e proiettiva alleanza e costanza, ricevuta nell’infanzia remota come ereditario legato di rinascente fiducia e speranza per accompagnarlo nel solitario cammino dove mutua matura la verità nascosta nell’orgoglio di esistere individuandosi come irripetibile, unica e univoca, ma reciproca persona.

Nell’orgogliosa accettazione di quel legato abita infatti il segreto motore/cuore che incessantemente pulsa irrorato in ogni vena del racconto: l’inchiostro verde, sempre “lo stesso inchiostro” verde che, fedele/leale “filo conduttore”, non si sbiadisce mai negli estenuanti interrogativi trascorsi e riproposti nelle contrastive trame del tessuto vitale, quell’ “inchiostro così particolare, diverso dagli altri” – e da ognuno di tutti gli altri – che complicemente “nascosto all’interno della penna”, è sempre pronto a “salire e saltar fuori” per scrivere, scrivere e ancora scrivere, insistendo e resistendo per scrivere a lungo, “più a lungo”, oltre il limine del singolare esistere, siglato e tramandato da Galeotti con quel riconoscibile, indelebile “tocco di signorilità” che testimoniando suggerisce e intendendo consegna, proponendo senza pretendere di predisporre e impartire, il divenire progressivo della sua duttile, perenne attualità.
Recensione
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