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Sorgivamente sofferta, scavata, accudita, accarezzata e offerta con l’ardita, palpitante, fiera tenerezza di un tenace papavero che oppone ardenti i suoi vermigli petali all’ingiuria del vento, Roberta Degl’Innocenti declina e riconferma in quest’ ultimo, recente viaggio dentro la poesia, la ossimorica resistenza nell’abbandono al privilegio/condanna di un inerme, eppur guerriero supplemento d’anima: anima abbigliata dall’arcobaleno di tutti i suoi multanimi colori nell’abbaglio libertario della fuga verso il rifugio in quell’ unico, suo saliente (e dolente) “colore di donna”. Donna nomade e temeraria, Roberta Degl’Innocenti con l’inchiostro vivo delle emozioni tempera e affonda ora la penna nelle platee più profonde del suo sentire, aspirando per respirare, e mordendo per gustare, il sale dolcissimo della vertigine vitale nell’ansiosa, silenziosa, solitaria, appassionata, adesiva complicità che risponde con la consapevolezza dell’intuizione ad ogni pulsivo ed intensivo richiamo di quelle emozioni, sempre colte ed accolte come fiori, da sbocciare senza meditare, fra le dita ingorde della mente: fragile voluttà sfiorata e intrattenuta nella sensitiva sorveglianza che affida alla innocenza della sublimazione lo stupore di una sottesa, e sedotta, urgente e seducente sensualità, soavemente affilata come le unghie rosse delle sue dita, appoggiate sulle morbide note della sinuosa melodia testuale a seguitarne intrigante la sotterranea trasparenza modale e tonale, accordata e avvinta, nella ‘presa diretta’ di tutte le sue intime urgenze e confliggenze, con la caleidoscopica materia profusa nell’accarnato offertorio dell’ esistere. In questa ultima opera, infatti, ideale compendio in divenire delle precedenti – in particolare la silloge “Colore di donna” e il libro di racconti “Donne in fuga”, di cui alcune storie sono qui riproposte in versi nella sezione “Donne in poesia”, la terza delle cinque del libro – l’A. è ancora il “guerriero disarmato” e la “musica” (si noti la poetica contrapposizione della duplice identità di genere) che all’unisono “prega e si consuma” alimentando e propagando la crepitante voracità del suo vertiginoso incendio poetico: ma quell’incendio ora soffia e si propaga, vorticando nell’oniroide vento coscienziale, per scavare e scovare sotto l’ustionata seta della pelle assetata, quel premente e fremente élan vital che, sempre rivestito e trattenuto in quell’ungulato smalto dipinto in verticale, vermiglia punta di sentire, qui si spoglia investito di tutta la sua amniotica, incisiva, sensitiva, impudica purezza, depouillèe di ogni paura, ogni vergogna, ogni colpa, ogni omissione e remissione, oltre ogni rimorso e ogni rimpianto imposto dal tempo della storia d’una vita, una vita infine accolta ed assolta nell’incontro speculare della propria contrastiva identità e alterità, riconosciute ed inverate insieme in un ‘tutt’uno’ coalescente con la realtà immaginifica del mondo.

Di questo bergsoniano, panico e pagano mannello di meraviglie, la Degl’Innocenti non canta dunque la iucunda voluptas, ma la trasparente, costante e dolorante voluttà della resa a quel dépouillement ove annudarsi e offrirsi alla conquista dell’altrui ‘sé’, desabillée da ogni ansia di provvisoria, instabile fuga, riparata nella scandalosa innocenza dell’assoluto “vestito di niente” della sua poesia: coerente dis-misura di parole “fuori codice”, “solitudine di pietra”, “lussuria di rosa” cui, lorcanamente, i desideri nascono dalle spine ed a cui “tutto è permesso, | anche la bestemmia” nella precisione rapace di sorprendersi aderendo alla metamorfica iridescenza delle cose in quel ‘moto più rapido’ (che il Badini riconosceva – appunto – al poeta spagnolo), e che Roberta Degl’Innocenti acchiappa come farfalla in volo, per volare con-fusa e con-fluente nella ostesa immediatezza della creaturale gnoseologia che desidera e considera, aderisce e assume tutte le cose della casa/mondo dissociandole associate nell’incanto del suo ellittico, anarchico, ingordo stupore. Nell’antiletteralità neo-simbolistica di questo libro, l’A.si concede infatti all’anarchica armonia di un sinestesico apprendistato conoscitivo aprendo quel suo intimo cancello, finora sempre e solo dischiuso dalla sinestesica voglia di spalancarlo nel coraggio di chiuderlo, per entrare a fare conoscenza con tutti i colori occlusi nella oscura selva del suo intimo giardino, osandone il sofferto segreto riscattato nella onirica naivetè del travagliato, metarazionalistico ri-conoscimento, dove l’innocenza dello scandalo è rappresentato da una creaturalità total body in cui il pensare e il sentire sono – ed hanno – il colore/calore trepidamente abbagliato dalla tenerezza d’uno stesso senso, sognato e annidato nel nudo, disinibito nitore della poesia. E come prima, pur volendo evitare facili, scontati, più o meno illustri apparentamenti, di cui la Degl’Innocenti non ha bisogno, ho citato Garcia Lorca (in particolare il Lorca giovanile della ‘Ballata di Cappuccetto Rosso’, dall’accarnato misticismo dettato, inappagato e cantato in ‘catene di sangue’, mutuato dal sincretismo dionisiaco-apollineo di Ruben Darìo) in questa tensiva, adesiva full immersion nei suoi versi mi è però venuto in mente anche Sandro Penna, per lo scabro e scavato, provocatorio, monopoematico biografismo ‘under-testuale’. Come lui mai intimisticamente autoreferenziale, l’A. non canta ‘opere pie’, ma de-canta con la liquida bellezza delle parole l’indefinito, magico fluire verso il mobile approdo d’una straordinaria pulsione vitalistica in cerca di quell’ardua individuazione che è croce e delizia, (“spine e oro”) intrecciata, maturata, distillata ed accettata nelle multanimi contaminazioni relazionali con le caotiche cause e cose del mondo, in cui il disagio della condizione, applicato all’incertezza della scelta nella coatta resistenza all’abbandono agli imposti – eppur commisti – ruoli di domina e/o schiavo, santo e/o strega, ritorna ad essere naturale, creaturale specchio sé-movente nella denudata trasgressione del Verbo poetico: ardente ed ardita innocenza vestita di niente in cui, “in bilico fra sogno e desiderio”, senza riserve né travestimenti, quell’ardito ardore che consuma la vita “in frusta di carezze”, brucia le scorie della sua sofferente materia, avocandole, e ri-sanandole accolte ed assolte nella allusiva trasparenza del canto; là dove ogni sostenuta crudezza (“il sudicio”, “il vomito” di parole delle suore, il “non amore”, i “cattivi pensieri”, le “stelle crocifisse, cattive da morire”) sono “soltanto favole” d’una “sirena stremata” dentro un’anima bambina, “meraviglia celeste, | tuffo di lago, polla trasparente”, che in “vertigine” di “candore e mistero” non ha più bisogno, e quindi non deve più , “guardare in basso”.

Vi invito dunque a lasciarvi andare al batticuore delle immediate emozioni di lettura per immergervi poi nella meditate considerazioni ‘meritate’ dal magico pansensualismo di questa ‘ballata’ segnata e tagliata, piagata e spiegata, cucita e distesa in provata prova per abbigliare, abbagliando con la sua ungulata, soave levità, l’ingombrante e sgomentante vuotezza della paura del peccato di esistere per niente, annidato e ricompensato nella catartica nudità dell’investimento poetico: quell’investimento cui Roberta Degl’Innocenti si dedica con la viscerale integrità dell’intelletto del cuore, con il piglio guerriero della sua disarmante, intrigante, ammaliante innocenza di matura, disarmata monella, che senza timidezze né timori, nell’ardire dell’ardore osa confermare e confidare, attraverso la smaltata magia del dettato versale, la sua spavalda volontà di lasciarsi infine andare ‘a vivere’, esplorando la gaudiosa fascinazione di ogni liminare, sofferta occasione dalla vita inferta/offerta, per imparare infine a conoscere per accogliere, ed a ri-conoscer-si per accettar-si , con-dividendo per diventare.

aprile 2007

Recensione
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