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Uno dei caratteri distintivi e
connotativi dell'attuale universo di discorso è dato dalla perdita della
capacità di sintesi a favore dell'elemento della dispersione: siamo alluvionati
dallo Tsunami delle parole e delle pagine scritte, dall'eccesso verbale che è
inversamente proporzionale alle cose da dire e da comunicare, si rimane come
frastornati da un'enormità di dati, di rimandi, di chiose che nascondono (quello
dell'occultamento è diventato un vero esercizio di maestria) il nocciolo della
comunicazione, forse proprio perché il nulla può essere trasmesso solo
attraverso l'eccesso, lo spropositato, la confusione babelica. Si è persa la
nozione che spesso poche poesie, addirittura pochi versi, possono ampiamente
legittimare sia la grandezza di un poeta sia la validità del suo messaggio. Ed è
il caso dell'ultima sezione, inedita, della raccolta antologica dell'opera di
G.Chiellino, autore di per sé mai debordante ma essenziale: Tela di parole,
laddove due, al massimo tre liriche sono di una densità, d'un peso specifico
tale da giustificare il suo inserimento tra i più significativi poeti
contemporanei.
In "Al poeta",
composizione leggendo la quale il pensiero non può non correre alle liriche più
significative di Hölderlin, Chiellino affronta di petto, nell'arco di pochi ma
intensamente evocativi versi, il tema della missione del poeta, di chi è missus,
inviato per adempiere ad un compito specifico: "tu solo dormi ancora sotto gli
alberi, | dai forma e sostanza alla parola | trovata nei fondali del
silenzio | ...| Tu solo aspetti ancora luce d'alba | e cerchi il volto di Dio che si
nasconde | dietro l'occhio vuoto della morte". Un dormire che non è stato
d'incoscienza, d'inconsapevolezza, d'inedia ma è una condizione attiva di
comunicazione con le dimensioni più profonde, abissali, originarie dell'Essere,
e non a caso il poeta si posiziona nel suo stato onirico sotto l'albero, da
sempre simbolo di vita in continua evoluzione e in ascesa verso il cielo,
emblema della verticalità che unisce la terra al cielo, rappresentazione del
carattere ciclico dell'evoluzione cosmica, della nascita e della morte, degli
elementi Aell'universo (l'acqua, la terra, l'aria, il fuoco, il legno). Di lì
trae la forza e il nutrimento necessari per innervare la parola, un verbum che
viene tratto, trasformato, forgiato, arricchito di significato e di valenze
semantiche dall'apparente vuoto contenitore del silenzio, che non è assenza,
vuoto, deserto ma prerequisito del linguaggio, punto di partenza, il
non-ancoradetto che inevitabilmente si dischiuderà nel
ciò-che-inevitabilmente-andràdetto. Per pervenire, dopo lunga ricerca,
all'acquisizione del volto di Dio, del grande giardiniere, potente metafora del
senso della vera vita che si nasconde dietro la maschera della morte, del non
essere più come realtà oggettuale.
La parola, quindi, vista come chiave
universale, come via d'accesso verso la spiritualità più profonda, una parola
che non deve necessariamente "nomare" il mondo delle cose (come avviene per la
visione estetica di Heidegger) per pervenire alle entità ultime. In Tela di
parole, poi, è la riproposizione del mito di Aracne, l'abile ricamatrice
trasformata in ragno per aver osato di mettersi in competizione con la divinità
e condannata a tessere per l'eternità la sua impalpabile tela, destinata a
disfarsi al minimo soffio di vento, emblema della decadenza dell'essere che ha
voluto farsi uguale agli dèi. Sorella di Sisifo, dell'accanirsi vano dei viventi
contro l'inevitabilità del proprio destino: "...Abissi Abissi e abissi ti
sostengono | mentre tessi incessante la tela | ... | All'infinito tessi il tuo
ricamo | e sempre speri che possa un giorno | avvolgere la superbia della dea".
Simile è il destino del poeta (e qui Chiellino sembra ricredersi della
tentazione titanica che aveva caratterizzato la lirica "Al poeta"): "Anche al
poeta fu data la tua sorte | escluso dal canto universale | fu condannato a
raccoglierne i frammenti", costretto a brancolare nel buio rischiarato da
"scarsa lucerna" nel tentativo di decifrare "... di segno in segno,
| di verso
in verso, di poema in poema, | l'alfabeto del Verbo impronunciato | e abbandonato
nel silenzio del tempo". Un poeta dimidiato, disorientato, escluso dall'armonia
primigenia, un poeta in crisi sì, riguardo all'esito ultimo del suo affannarsi
sulla terra degli uomini, ma pur sempre lucido e conscio della propria missione
(che è anche segno distintivo suo e non di altri) che non riguarda solo la
decodificazione del linguaggio divino ma attiene alla speranza di pervenire all'Arché, al fondamento ontico che tutto fonda, alla parola divina, al lògos di
vetero-testamentaria memoria: "Con tenacia coltiva il sogno di trovare | un
giorno il suono incipitario, il suono | che riporta l'eco lontana della prima
voce | e intanto lotta sul filo della vita e della morte".
Di lì può
nascere la parola significativa, evocata e pronunciata non a caso, la parola
sapientemente coltivata che può portarci al centro della spirale conoscitiva che
attiene l'elemento divino: "...non con un dire vano, vuoto | senza appiglio, ma
per riportarlo, | quel suono, nella luce del suo centro, | nella lettera del
concepimento | dove Dio si compiace nel figlio | per tracciare in eterno il suo
Alfabeto".
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Recensione |
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