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Ancora Barabba

Un poemetto, quasi una drammaturgia in versi di vaga reminiscenza Luziana, non fosse altro per la scelta del tema evangelico. Si potrebbe immaginare una voce recitante e un coro, Barabba e la folla.

Barabba, salvato e liberato dalla folla, vive i giorni e le notti prima la sua (scongiurata) morte. La sua identità fluida confonde la sua passione con quella di Gesù, la sua estraneità a quella del suo giudice, Pilato, ed infine la sua intervenuta salvezza a quella della folla che lo ha salvato.

Sia pure con facile approssimazione verrebbe da dire: Barabba siamo tutti noi. La folla decide sempre e per sempre e volta contro l’altro da sé, pre-giudicando nell’ombra dell’ignoranza: “Qui non importa essere figlio di dio. / Il cielo è così distante da confondere idee / e la sera è uno stato permanente.”. Non sembri blasfemo ritenere che è assente, da questa scrittura, una verticalità. L’esistenza di Dio, la fede, sono elementi fondanti da cui sgorga questa poesia, ma è nel solco del puro cristianesimo che si dipana il filo delle riflessioni.

Ma ciascuno è straniero in terra straniera, ciascuno può rimanere vittima e “Barabba non è più sicuro / che sia morto un altro al suo posto.”. Poiché la morte terrena è toccata al Cristo, ma la croce era stata alzata per entrambi ed è comunque una forma di espiazione morire ogni giorno nel senso di colpa della sopravvivenza: “Stanno issando una croce, che guarda me.”. La croce continua ad osservarci, attraverso la storia, e continua a sollecitare la nostra responsabilità di uomini. Non può non riconoscersi a quest’opera anche una vocazione precettiva: “Affidarsi a qualcuno / è un’idea di salvezza.”. La miglior poesia sa essere icastica, non pare doversi aggiungere altro.

Recensione
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