In deserto
Il caso che
alle volte governa le vicende umane ci pone dalla parte del televisore in cui le
notizia si ascoltano (ricordo una poesia di Valerio Magrelli su questo tema). Ma
tale fortuita circostanza non esime dal prenderci la responsabilità di
conoscere, che è attività ben diversa dall’ascoltare. In tal senso, il deserto
del titolo è quanto dobbiamo scongiurare. Come ci ricorda Flavio Ermini
nell’introduzione, il titolo è tratto da Giovanni, 1, 23: “ego vox clamantis
in deserto”, ma nella vulgata, più che la voce di Dio la vox clamantis
è la voce che rischia di rimanere inascoltata.
La
preoccupazione di Steffan è che il male riportato e non vissuto possa risultare
fittizio, irreale, parte di un rumore di fondo che accompagna il quotidiano.
La poesia
interviene allora con tutta la sua forza e la sua ricchezza a far propria la
tragedia attuale nel tentativo di testimoniarla con il più elevato eloquio: “Ché
rifugio è solo su riarsa ripa / ché i mostri son mostri e angeli si mostrano /
ché di brecce di folgore rituona / il mare nostrum – ché muti riemergono / in
richiami di buio / e poi muti si perdono” e più oltre “e vago abbaglio di
terra straniera / mai avuta e già rimorta”. Risuona un’eco dantesca
nell’incedere di questi versi, che sembrano sempre stati e che sempre
resteranno, così come si prefigge l’autore per ciò che egli stesso canta “Fa’
che la morte per acqua non sia morte impune / ché è già dannata macchia”.
Altrove il
tono si fa elegiaco, ripiegando su una semplicità ed un’autenticità perduta che
affonda nei ricordi del passato: “Si riavrà infine il chiacchierio della
vendemmia, / si riavranno le sue risa (spezzata robinia) e il dialetto? / O
sverrà e poi sventrato dai vermi / crollerà in pulviscolo finché deserto / il
mondo si riavrà?”. Pare non esservi alternativa, speranza o distruzione.
Eppure
soccorre la grande madre, che riflette la creazione e che supera, in quanto
tale, bene e male, categorie che appartengono all’arbitrio, nell’umana libertà
di scelta. Maggior libertà è concessa all’espressione più diretta della natura:
“Sullo spoglio dei faggi /
s’intride il verde peccio / sulla porta del Bosco / Perdura qual vivente /
pilastro alto eternato / cui mai alcun Dio imporrà / clausura di cancello”.
Cosa rimane
quindi della poesia al cospetto di tale manifestazione
divina? “Un
istante deserto / del dire sopra un niente di colline”.
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