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Lingua madre
E’ davvero
complesso offrire una prospettiva attendibile atta ad inquadrare lo sforzo
narrativo profuso da Renzo Cremona in “Lingua madre”.
La tenzone
che vede contrapposti lingua italiana e dialetto proclama quale unica vincitrice
la parola. Sia nel fitto e ampio dialogo intessuto proprio tra lingua e
dialetto, sia nei vari brani che occupano la seconda parte del libro, si declina
una varietà di trame e tranelli linguistici il cui fine è destrutturare la loro
stessa architettura, quasi spinti, e spinto l’autore, a compiere e reiterare un
cinico meccanismo di velature e disvelamenti. Alla fine la parola resta sul
campo per sottrazione, quasi a significare la sua presenza per mancanza di
ulteriori referenti.
La lezione
dei letteralismi francesi e americani trova in Cremona un maturo e discreto
rappresentante, che nelle circostanze quotidiane del parlato ha modo di scolpire
la forma grezza del discorso per far affiorare, a colpi di scalpello, i contorni
della “lingua madre”; o forse dovremmo invertire i termini e parlare, per
l’appunto, di madre lingua, dal momento che il battibecco tra lingua e dialetto
pare una sorta di pretesto utile ad avviare questo esercizio che, non di stile e
non vano, né di vanità, assume una valenza esistenziale, se tanto si ha
evoluzione e comunicazione quanto si ha linguaggio verbale.
In buona
sostanza, l’opera di Cremona può ascriversi alle migliori tradizioni, diffuse in
Francia e che conta comunque alcuni fulgidi esempi nella letteratura nostrana,
uno su tutti le “Operette morali” di Leopardi, in cui si fondono riflessione
filosofica, narrativa e analisi del quotidiano.
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Recensione |
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