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Oltre la tela di ragno che m’invento
Nella tela di ragno di Emanuele
Giudice ricorrono alcune trame: il contrasto tra finzioni, apparenze e realtà;
il tempo trascorso ed una sorta di percepito ritardo rispetto al proprio corso,
quasi che l’occasione della vita fosse fuggita altrove; ma insieme, altro tema,
la spia di quell’occasione che talvolta si riaccende, quasi a segnalare, come un
cicalino notturno, che comunque il movimento non si arresta. E a questo
proposito il mare mai immobile, inteso sia come mistero da sondare sia come
distesa che tutti accoglie nella loro storia (anche drammatica, come nel testo
dedicato ai naufraghi di Lampedusa).
In tono ora confidenziale ora
precettivo, l’autore si commiata (è questo il suo ultimo libro) interrogando e
interrogandosi ancora: “Umane, / o d’altra radici inesplorate?” sono le voci che
riecheggiano e si richiamano tra loro (come non ricordare l’Ungaretti “d’altri
diluvi…”?). E tra queste voci che si confondono, familiari e letterarie (ancora
si può citare il Montale della parola che squadri da ogni lato laddove
l’autore cerca “… la parola / capace di incontrarsi con l’altra”), la più
imperiosa e silenziosa aleggia e dialoga muta. Ma è la vita a prevalere, se
ancora una volta l’uso della parola, così ci ricorda Giudice (misurandosi in una
reiterata partita a scacchi che ci evoca la celeberrima scena de 'Il Settimo sigillo'), è capace di costruire tranelli “per sfuggire alla tenaglia”
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Recensione |
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