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Puzza di bruciato
Sono vari i
livelli di scrittura (e di lettura) nel romanzo di Monica Florio. Un primo
livello - narrativo - è ovviamente costituito dall’intreccio che porta
l’investigatore Nick Drake (alias Nicola Drago) ad indagare sulla scomparsa di
Stefano Di Nardi, di professione editor. Si insinua quindi un secondo livello,
di natura meta-letteraria, in cui la questione della creatività, delle dinamiche
di produzione editoriale e del rapporto che sussiste tra vendita e talento (e
tutti i compromessi in cui si declina tale rapporto) assume un ruolo
ulteriormente di rilievo.
Vi è poi il
tessuto sociale con tutte le sue sfaccettature, dalla relazione gay tra Di Nardi
e il suo compagno (colui che si rivolge a Drake per la scomparsa dell’editor),
ai rapporti complessi e quasi rassegnati di Drake con la propria famiglia (in
particolare con il fratello Giacomo), con l’amore (rappresentato da Carmen,
cassiera di Bar), e in fondo con la vita stessa.
E ancora, di
nuovo, un rientro dell’aspetto meta-letterario nel riscatto che, tramite la
lettura (Drake deve indagare sulla scomparsa di un editor, ergo…),
proprio la trama di una vita sfilacciata (quella di Drake) ha modo di ricucire
con filli che tengano uniti il passato e le proprie scelte con un futuro
anch’esso scelto e non subìto.
La rinuncia
cede il passo alla consapevolezza e alla cura del proprio destino, laddove per
consapevolezza si intende anche accettazione della differenza e superamento dei
propri limiti (in primis l’omofobia, con tutte le nefaste conseguenze che
può comportare, è uno dei temi posti in rilievo dall’autrice che sa percorrere
con autenticità e garbo anche le pieghe più oscure dei caratteri rappresentati).
Nello sguardo
disincantato di Drake si dipana il gomitolo di varie esistenze, tra loro
intrecciate. Ma quello sguardo ha ancora luce per un baluginio quando osserva
Napoli, città che non delude nell’accogliere qualsiasi riso e qualsiasi
amarezza, che nei propri vichi sa comprendere la presunta diversità come una
delle innumerevoli varianti di ciò che sempre è stato e sempre rimarrà normale
perché soggetto alla stessa sorte.
Delinquenza,
fulgore, monnezza e lusso convivono a distanza di qualche metro, e
laddove qualche metro è una distanza facilmente percorribile è facile che le
parti possano scambiarsi. Così, quasi - e anche soltanto - per questioni di
spazio (l’autrice ci conceda questa licenza), presumere e pretendere che la
propria condizione sia il metro di riferimento immette in un vicolo che in fondo
non porta comunque al mare, ma a una cieca e disperante solitudine.
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Recensione |
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