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L'esergo con cui si apre il
poemetto Sequenza friulana, appena pubblicato dalla
poetessa e saggista padovana Marina Battilana nei caratteri
del suo concittadino Panda, è dedicato ad Andrea Zanzotto, perché vi si citano
alcuni versi del celeberrimo Galateo in
bosco. Ciò fa dire all'autrice, nel suo ringraziamento iniziale al
poema, che rispetto al Maestro di Pieve di Soligo "mi è
sembrato di notare sentimenti affini ai miei riguardo a trascorse,
ma non dimenticate tragedie della collettività". Ed
infatti noi sappiamo che il galateo è la sfida al labirinto, cioè al
linguaggio fitto ed intricato come un bosco dentro cui si perdono
e si trovano i significati del nostro inconscio, in un
groviglio di alternanze provenienti dal latino, dal provenzale,
dal dialetto veneto, dal petel (il linguaggio dei bambini della provincia
trevisana), dalle formule elaborate dai
mass-media: la poesia dovrebbe essere l'orientamento verso il bello, una sorta
di galateo, che accetta la sfida del labirinto e che esplora il bosco. Ma la
Battilana ha in mente un hommage a
Zanzotto di natura anche affettiva, che disvela una
comune appartenenza ambientale, di conterranea, e che va molto
oltre l'affezione poetica, per altro quasi scontata o dovuta. C'è il comune sentire,
l'attrazione e il fascino rivolto al bosco come enigma ermetico che soprassiede
all'inconscio e che in Battilana si arricchisce anche dell'aggiunta di un versante mitologico, storico e civile, mentre
si alleggerisce l'iper-ricerca linguistica che ha contraddistinto la fase centrale della produzione
poetica zanzottiana. La selva di cui Marilla Battilana si occupa è quella che
incorona una casa, sita in Friuli, tra i monti Talm e Neval, un'abitazione "[...] così densa
| di presenze segni orme, il
cero | polveroso di chissà quale pasqua | il calendario da tre lustri appeso". Ma la selva vera e
propria, più in generale, è l'albero, cioè la vita sia solare sia ctonia, la
chioma e la radice, luce e tenebra, fabbrica di continua trasformazione della
luce in materia vivente, legno che diviene fondamenta della civiltà, palafitta
per Venezia, naviglio che esplora il mare, mobilia per le case,
cellulosa per i libri, magma che trasuda di mistero, voce mitica di presenze
ultramondane, scrigno di leggende ed acceleratore del fantastico. Ma la selva è anche l'archivio della memoria segreta
dell'uomo, ove s'annida il seme iniziale del male o meglio ove si scatena
l'irriducibile scontro tra il bene ed il male, particolarmente idea lizzato dai seguaci dell'eresia catara dell'undicesimo
secolo. La Battilana richiama apertamente Domenico Scandella, il mugnaio di
Cividale, soprannominato Menocchio, che a fine Cinquecen to fu processato dall'Inquisizione, una tragedia
gratuita ed orrenda della cristianità, della quale ci saremmo già dimenticati – come di un'infinità d'altre
morti atroci procurate nel nome della civiltà – se non ci avesse pensato Carlo Ginzburg a riportarla
d'attualità con il libro Il formaggio e i vermi. Il cosmo di un mugnaio del
'500, uscito nel 1976 presso Einaudi e se il Papa successivamente non lo avesse consegnato all'eterna memoria
chiedendo scusa – ci spiega la Battilana – per il suo rogo. Al di là della valutazione storica
sulle motivazioni e sui fini della controriforma in opposizione alla riforma protestante, con i relativi
scontri di interessi sia materiali sia spirituali, il richiamo a Menocchio da parte di Battilana serve a
rievocare lo scontro tra la cultura popolare da una parte e la cultura
dotta dall'altra, altra dialettica degli opposti e scontro misterico custo
dito nella selva della nostra coscienza, e serve ad introdurre l'ultimo, più
accorato e più profondo, argomento svolto dal poemetto. Si tratta dell'orrido
di Bus de la Lu in, una foiba che è un fosso di circa centottanta metri, sita nella foresta del
Cansiglio, dentro cui furono infoibati a centinaia i perseguitati dai partigiani
italiani di ispirazione comunista che operavano in regime di collaborazione con le truppe d'occupazione titine, in un quadro
storico che deve essere definito per quel che di fatto era, cioè una guerra
civile non dichiarata e sporca, un vero martirio della popolazione inerme, presa di mira per motivi ideologici e per
interessi materiali (ritorna il fantasma di Menocchio). Su questo terribile
genocidio è calato non tanto un silenzio di piombo, ma qualcosa di peggio, cioè
un'indifferenza spocchiosa e complice che è mille volte più odiosa del silenzio. Fa, dunque, molto bene l'autrice a sollevare il
proprio sdegno, mai speso così bene, da parte di un poeta, come quando celebra
il martirio dei giusti e pronuncia la condanna dei loro aguzzini.
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Recensione |
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