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Ombrìe
Dalla
poesia “Dialèt” alcuni versi: “Te me strenzi en la to canta, dialèt,
| sudor dei
me vèci,lagrime sute | carezza strangossada e cossì vera | da desmissiar i sgrisoi
dei ricordi | sepolidi, ’mpastadi co’ la tera.” Così si esprime Lilia Slomp
Ferrari nella sua ultima silloge Ombrìe e ci spiega magistralmente perché
questo libro di versi sia stato scritto in dialetto. E’ un amore il suo atavico,
viscerale che si esprime in un vernacolo, pulito, corretto, musicale, armonioso.
L’autrice spiega che non è facile scrivere versi in un dialetto come quello
trentino un po’ duro con parole tronche che finiscono in consonanti. Ma è la
sua lingua quella che ha assorbito con il latte materno e che fa parte della sua
natura. Perché “Ombrìe”? Ombrìa, ombra è un termine ricorrente nelle poesie di
Lilia perché le ombre sono quelle della natura ma simbolicamente le persone, i
fatti che fanno parte di un passato che rivive nel presente. Senza ombra non c’è
luce, ombra è tutto ciò che è sepolto nell’inconscio e che rinneghiamo perché lo
riteniamo negativo. Invece l’ombra deve affiorare perché nasconde in sé sprazzi
di luce che illuminano quando appaiono la nostra vita e ci rendono completi.
L’ombra dà spessore all’uomo che senza di lei sarebbe leggero, superficiale.
Ombrìa dà
il titolo a una bellissima poesia piena di allegria dove giocano gli elementi
della natura e delle favole: “L’ombrìa la gà le strìe a cavalòt | quando la zuga
’l sol co’ la so luna | l’è come la ciaméssa a la so cuna | inverni e primavere
’nté ’n sangiót. | …” L’autrice con la sua grande fantasia popola il mondo delle
sue poesie di gnomi, folletti, streghe, un mondo che ha ereditato dai suoi avi e
questi personaggi vagano per boschi, laghi e si mescolano con le ombre, con il
sole con gli alberi con le formichine che con le loro lunghe scie percorrono la
strada verso la tana. Ecco un saggio:”Le strìe le giostra la so vèsta longa
| fruada come la malinconia | en la tonda del l’ultim fioch de nef | sangiotà da na
luna ’nnamorada | che la cuca, ariòma dentro ’l poz.”
Il libro inizia con una
bellissima poesia d’amore dedicata al marito Paolo per i quaranta anni di
matrimonio. Un amore fresco che non ha subito gli attacchi del tempo. E Lilia ha
anche una natura passionale che si manifesta nell’amore per i suoi cari, ma
anche nei suoi interessi che a volte le inquietano l’anima. La sua passeggiata
nella memoria non le fa dimenticare che il mondo è pieno di tragedie che si sono
consumate un tempo come Le foibe e che tuttora affliggono la terra. Poi
completano l’opera i sonetti che le sgorgano spontanei dall’anima e che
rispecchiano la sua natura di poetessa completa, poiché esprimono la sua
padronanza nella tecnica del verso. Ce ne sono due ogni otto poesie che
costituiscono una sosta nella quale tirare le fila di un complesso di temi nel
quale il lettore si è immerso per cercare di carpire insieme all’autrice il
fondamento, la trama invisibile , quella che non appare ma fa capolino in alcune
sue rime. “Destràni”: “ Ne spizzega le vene quel destràni | che ’l gà ’l saór
de la malinconia. | Ancòi l’è squasi grop enté la gola | enté sto mondo ormai senza
misura. | E basterìa na s’cianta de paura | per far cantar de nòf quele sortive
| che pianze tèmpi ancora da ninar…” “Destràni l’è na maschera de ’nsògni,
| la lagrima pianzuda da ’n pierrot, | na scortaròla verso quei doman | che se destira
al pass de ’n orolòi | co’ le raze ’mpiantade ’nté ’n sangiót.”
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Recensione |
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