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Cominciando la sua lunghissima confessione, l'ottuagenario protagonista dei più celebre romanzo di Ippolito Nievo osserva, con una voce impregnata di un sentimento a suo modo illimitato del tempo: "la vita fu da me sperimentata un bene". Quanti dolori, passioni, furori, eroismi, struggimenti, rimpianti hanno bruciato nella sua anima per portarlo a questo riconoscimento! Quanti mali hanno dovuto essere da lui affrontati per giungere a questo "bene"! Tutto ciò, lo sappiamo, non è che finzione romanzesca, perché Nievo, poco dopo aver terminato il proprio libro, morì a soli trent'anni in un naufragio nel Tirreno. Eppure questa finzione ha la verità profonda delle visioni maturate nella mente e nell'anima per pura forza intuitiva e meditativa, grazie a quell'intelligenza "totale" che è un dono concesso dagli dei solo ai creatori di genio.

Già autore, anni fa, di un'importante biografia di Nievo, Paolo Ruffilli torna ora al suo amato scrittore con un romanzo, L'isola e il sogno, che ruota proprio attorno al nodo della vita come bene e come male, come teatro di ingiustizie, cinismi e soprusi ma insieme come epifania irriducibile della bellezza, dell'eros, della magia, della grazia. Benché ancora assai giovane, il Nievo che si muove tra queste pagine ha già un'intensa e sofferta consapevolezza delle leggi che governano il mondo. Tornato a Palermo nel febbraio 1861, cioè poco prima della proclamazione dell'unità d'Italia, egli deve sbrigare una serie di complesse faccende pratiche – controllare conti, verificare documenti – in quanto responsabile dell'amministrazione finanziaria istituita da Garibaldi nell'isola, un insieme di uffici a cui fanno capo migliaia di problemi e di postulanti. Da questo crocevia di interessi discordanti egli osserva come la purezza degli ideali di Garibaldi – la speranza in un’Italia non solo unita ma giusta, la fede in un mondo più umano – sia ogni giorno assediata, messa alla prova e avvilita da faccendieri e politici senza scrupoli, da potenti siciliani o da emissari di Cavour delegati a gettare discredito sulle ex-camicie rosse. Ma a questa realtà si oppone la luce di sogno di un'isola in cui la vita è consacrata a gioire, a liberare i sensi, a ubriacarsi d'azzurro, a nutrirsi della dolcezza di corpi femminili fluttuanti entro stoffe colorate come i fiori che ammantano i giardini, come i bouquet che adornano le chiese o i palazzi rutilanti di feste continue.

Forse in nessun luogo come in quest'isola amare è necessario, naturale e possibile. E anche per il giovane Nievo è soprattutto l'amore – questa forza ingovernabile, in continuo movimento come il mare – a contrastare le dure strettoie della realtà gettando l'anima sempre più in là, verso un altrove che non ha nome ma che attende ogni volta il proprio battesimo dal mistero dell'incontro, del dono reciproco. Ondeggiando fra il ricordo della sua prima passione, Matilde, la nostalgia per Bice, suo grande amore impossibile, e l'ardore per Palmira, la nuova, bellissima amante, lo scrittore vive come in sospensione, come scivolando sul filo sdrucciolevole del tempo, ignaro della morte che lo sovrasta e che fra poco, nel viaggio di ritorno dalla Sicilia al Piemonte, lo inghiottirà. Certo il desiderio erotico non esaurisce la sostanza intima di Ippolito; la sua energia interiore, innervata da pulsioni diverse, instabile e aperta a ogni esplorazione, lo porta spesso a un pathos civile, a un sentimento irto e battagliero: l'uomo innamorato delle donne è anche, infatti, un guerriero, un fedele seguace di Garibaldi, un polemista appassionato, un combattente per i poveri e i derelitti; così ai momenti di puro abbandono alla gratuità, al miracolo ineffabile dell'amore – momenti vibranti di una delicatezza orientale, quasi taoista – si alternano nel libro di Ruffilli palpitanti conversazioni politiche, schietti confronti di idee, dialoghi accesi dall’indignazione e dal sarcasmo. Ma, descrivendo l'ultimo viaggio compiuto da Nievo – quello sull’“Ercole”, il battello che affonderà a metà strada tra Palermo e Napoli – l'autore dell'Isola e il sogno immagina il protagonista mentre, ripensando al suo Friuli, lo contempla come un luogo dove la vita è sempre "senza fretta", dove non è necessario fare "chissà cosa". In extremis, dunque, è ancora la bellezza del mondo assaporata nella sua gratuità, o la leggerezza delle cose senza scopo, a nutrire la mente e il cuore dello scrittore ritratto da Ruffilli. Forse era proprio questo il nocciolo del "bene" riconosciuto da Carlo Altoviti all'inizio delle "Confessioni"? Anche Ruffilli ama abitare il regno della sospensione, del mistero, delle domande aperte: nessuna risposta semplice sigla il suo romanzo, mentre, esplodendo all'improvviso, una tempesta furiosa come il tifone evocato da Conrad travolge il suo Nievo in un abisso ineluttabile, uno di quegli abissi che paiono progettati da un Regista senza volto per troncare una vita, per condurla alla forma oscura e luminosa della sua eternità.

17 maggio 2011

Recensione
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