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Una donna, un gatto, una santa.
Tre emblemi per illustrare una vicenda umana generalizzata, ma che Lucio Zinna
racconta con personale sapienza e commozione.
Il dramma odierno che
s’allenta e addolcisce in paesaggi lontani e del cuore: «L’infanzia magra e
solatìa l’adolescenza | vasta e solinga come un deserto d’agrumi |; «narravano
di cupole moresche sull’oceano | di pensili giardini...| di notti trapunte di
diamanti...» (da «Casablanca»), intessuto d’ironia auto-protettiva un po’
ovunque; satira dolente e giustamente feroce nel preambolo di «Ballatetta
Comisana 1984», dove il Padre è conosciuto dai figli come Padre mostro.
Bellissima tutta questa poesia-denuncia, foraggiata di amore e di amore per il
sogno ancora possibile: «hanno immani petardi i nostri sogni», dove la cultura
si fa dolente carico della storia ancora sempre sfruttata da Potere, il
mezzogiorno «sciuscià» in balìa di maîtres-à-penser blateranti. Esiste in Zinna
un’ironia più leggera che assume, a volte, l’allure di una filastrocca
fanciullesca. Poesia che vuol essere anche gioco linguistico, sciropposo e denso
come il vino della sua Sicilia, e che dal colto-umanistico trapassa nel
linguaggio dei media e della pubblicità internazionale, in un rimpiattino
piacevole, a volte perfino forzato (v. «Seminario di linguistica a Torre Makauda»,
dove il vocabolo «lingua» svolge molti ruoli). Altre volte il segno linguistico
si associa a un segno affine che lo varia foneticamente completandone il
contenuto e il significato: è il caso di «Amoreumore».
Ma Zinna sistema nei suoi
poemi tutti i generi letterari, dall’epigramma all’epica per evidenziare – da
ottimo direttore delle luci qual’é – l’uomo nel suo odierno quanto antico
sfaccettarsi; così nasce il nuovo paladino Rolando-Orlando, inseguito blandito
da Madonna Morte. E anche qui l’acuta sapienza del poeta gli permette di evadere
in paesaggi lirici, in una storia eternamente valida e accattivante che
s’imprime nella memoria del lettore. Il prossimo non e sempre vicino. Per Zinna
s’impara a conoscerlo nel tempo; ma l’effetto solitudine, maturando amaramente e
lentamente, riporta te, uomo che unisci al cuore la cultura (in un combattuto
discreto equilibrio) ad una nuova alleanza con i tuoi simili, più prospettica,
più consapevole.
È forse Dio che ti vuole
amico di tutti gli esseri viventi? Il Cristo racchiuso in «calici d’oro»? E il
poeta si domanda: «di me che sai? Ancora mi daresti uno sguardo | se mi
sperdessi in questo navigare?» Il poeta s’inchina con rispetto, ma il gesto non
significa una totale sicurezza. È la speranza non ancora la fede, se
consideriamo il dantesco: fede è sostanza di cose sperate. L’amore, un amore
diverso, si è insinuato un giorno nel cuore di Zinna uomo e poeta per la piccola
santa di Lisieux, veduta in una vecchia fotografia. È nel volto della giovane
Teresa che Zinna – forse – ha visto Dio. Si è perduto nel suo candore, è stato
definitivamente rapito dalla «sofferta luce che filtra» dal suo volto. È la luce
che ha sempre inconsapevolmente inseguito, che gli ha spalancato altri mondi. Il
lume che potenzia le lenti dell’anima «Un lume che ravviva le pose svilite»,
che, «esalta i canti di culla». Ecco che prossimo, amici morti e presenti,
esseri viventi tutti, gli animali come l’amato gatto Raffaele (il gatto non e
più sornione del maschio-uomo) affollano la solitaria parabola dell’uomo. Per
tutto questo, oltre che per il volto
di Teresa di Lisieux, quasi una
piccola Beatrice, «si può tornare | a ri | sentirsi fra uomini e
salire».
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Recensione |
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