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Lucio Zinna: il verso di vivere

Un’antologia di poesie scelte e ordinate da varie raccolte comprese tra il 1957 e il ‘92. Più di un trentennio di elaborati in uno spazio compositivo raffinato e lieve, impegnato e autocritico, dalle diverse sfaccettature che si intersecano nel gioco crudele della vita.

Dal 1958, quasi ininterrottamente, vita e verso si nutrono l’un l’altro in costante progressione; l’attenzione è la base vitale in cui confluiscono rigore, dignità, disperazione della sensibilità.

Di una particolare musica il suono unitamente a strutture dure di fonemi, mai declinanti in rassegnazione del tempo. La frequentazione dell’accadere, un’offerta generosa di sé e denuncia. Quella di Lucio Zinna è una poesia d’impegno, riccamente individuale, attenta, in un’invenzione d’equilibrio, da cancellare peso e lamento nel porgere di un esistenzialismo personale; sociale, ma dal grumo di una solitudine in espansione colloquiale più che a grande raggio.

Per un certo verso è pur un bene che la voce lirica sia maculata da malinconie atroci “il futuro dopo questa avventura come un magma | e dentro tante scaglie di un passato | ferocemente remoto”: l’uomo piagato di Equilibrio e la poesia che segue ammaliata questo procedere con piedi di fango. Ma la risalita è in fieri; dalla mortificazione della malattia, dalle prove di amarezza rinascono il gusto la cattiveria il senso della battaglia.

L’urgenza di partire o di restare – l’interrogativo accattivante che ha attivato e consumato mito e storia − è la febbre che implora soluzione. Il viaggio come apertura del mito e rottura storica (non quello baudelairiano che si autonutre e diventa assurdo a confronto della poetica precisione di lidi isole orizzonti, anche metaforici, quasi la cuspide geometrica di un Lautréamont). Il grande respiro di Terra d’esordio, dove il verso s’intride di contrastato dolore “In questo lembo estremo di Sicilia siamo noi | stranamente un po’ Venezia un po’ Tunisi | ansia di riscatto e ansia di affondare | in giuochi raffinati goccia a goccia | luminarie e kuscùs...”; migrazione con tutte le incognite o rinuncia (ma anche migrazione intensa di idee come luoghi). Focolare e avventura, saggezza e febbre d’altura. Zinna scelse di restare, non a Mazara del Vallo dove lasciò il suo cuore di ragazzo sensibile e malinconico e qualche sogno in più (i “sogni chiusi” di Fiume Mazaro), ma a Palermo, cuore pulsante dell’isola, della lotta in grande. Un tema più interiorizzato che enunciato quello della lotta, a volte con fatica estrema, l’uomo reclina a tratti, per un breve riposo, denso comunque d’immagini “siamo legno destinato a marcire | siamo piante recise fresca l’acqua | di ogni giorno ne posterga la fine”. Ma è proprio questa momentanea flessione a denotare la presenza inossidabile del pensiero (Disorganico improvviso); e quando la parola appare svilita, e Zinna lo mette in evidenza, è proprio là che dobbiamo vederne la forza espressiva.

Vivere ogni giorno a Palermo vuol dire aver sempre presente l’ossessione dei morti per giustizia e starci vicino nella non compromissione, considerandosi uno tra gli altri “reprobi” isolani. Perché Palermo pluvia, Palermo plurima, è il paesaggio più conflittuale che esista in Italia. Palermo scoperta, vissuta, raccontata nelle variegate sensazioni sentimenti ragioni. Ed ecco la ricarica del “No che ci portiamo addosso”; la negatività relativa di ogni nostra possibilità, contraddetta istantaneamente da una volontà d’eterno, mentre ci scorre addosso il vento d’amore, l’evento senza confini, il più eterno degli eventi. In dettaglio, per un uomo tra gli uomini, il no del protoplasma, del paese che ci ha fatto nascere. Nascere nell’isola dell’isola (emblematicamente) ed essere depredati già nel ventre della madre. Dalla Mazara d’esordio, la forza per un ragazzo coraggioso di vivere e conoscere e da un destino irto d’interrogativi e difficoltà, scegliere la via più ardua, costretto nella polveriera delle contraddizioni siciliane, dove il vivere è più tortuoso (era più agevole il Nord per un’ambizione culturale di confronto; e la formazione del poeta è altrettanto europea, come molte sue inclinazioni, sostiene un nordista).

A diciassette anni inizia la prova pratica, lo scarico di eventi e malinconie.

Non l’uno senza le altre; nella memoria immediata, ancora senza risvolti d’ombre, limpido lo sguardo, esitante il cuore. Dapprima lo scrivere è ancora facile specchio del vivere “Io sognavo di artisti | e di pirati | Conoscevo Heine e Ben Gun” oppure malinconicamente “Le mie feste non ebbero | petardi luminarie bandiere”. E ancora nel ‘63 terzine romantiche dal verso sciolto “Più non abbiamo occhi per il mondo | quando sul cuore ti posi | che batte ritmi in blues”. Una libera scelta di poesia e di vita, non ancora contrasti in nevrosi.

Scorrono i nomi, Elide Marco Silvia Monique Massimiliano, scorrono abbandoni, prese di posizione, profonda accettazione; la sofferenza che sviluppa sensibilità è in agguato, e così poca e breve cosa è il “cotidie”. Quanto coraggio ci vorrà per un continuato “filobus dei giorni”? Fa meraviglia come a leggere questi versi la compartecipazione sia tale, da provocare le analoghe emozioni d’amore appena lette.

Poi a ridarti (e ridare al poeta) le giuste distanze, ecco le forti emozioni di Libertà, stupenda, dove il felice risultato espressivo s’identifica con l’estrema amarezza di una irreparabile perdita “... c’è in noi, nelle ossa | una certa distrazione, un inspiegabile | informe modo d’essere irrequieti...”, ed è meraviglia ancora la facoltà di contenere il finale in un decrescere di tono privo di retorica “Ti stiamo vendendo libertà | perdonaci.” Un montaggio stretto senza code.

Affrontano l’esistenziale incertezza versi come dardi, i Pugnali di silenzio, ma non squillano meno Da accese finestre rimbalzano frammenti di trent’anni dopo (“Meglio l’ispettore Derrick”), o lo stupore amaro di non trasmettere dal volto “corse e praterie | il freno morso a ogni steccato |...” degli stessi anni in Vaso da fiori con dagherrotipi ad alterne movenze, squisita composizione e delicata come un “bisquit”, altalenante (e vincente): la spinta ascensionale che fa giovane questa poesia.

Con la crescita delle difficoltà lessicali la scrittura si fa più mossa; nel corsivo si alternano sottolineature, moti del cuore di un tutoyer intimamente riservato per il conforto e la precisione, partendo da Sagana in poi (in generale, prima, fino al ‘63, il verso era fresco, breve nella strofa corta “Già mi fumavo l’alfa...”, oppure “Il tempo | scandito | a sigarette” e “Arrivò l’autunno | il nostro amore | ...”). Anche se negli stessi anni nascono l’intensamente amara a Mio padre, la cu rilettura non scade certamente di livello. “Quando mio padre partì nel Marocco... (e già Zinna amava una lingua discorsiva non depurata; mentre lo stesso tema paterno, ripreso venti anni dopo con Casablanca, offre una prospettiva umbratile e favolistica trapunta di disperazione antica e giovane “Cartes postales e viaggiatori siculi | nella diaspora transitanti per il valmazàra) narravano di cupole moresche... di notti trapunte di diamanti di mercanti... Al caro papà lontano | con tanto abbetto... il sole d’Affrica...”.

A volte strutture sinteticamente cariche connesse all’attenzione e al confronto, o per ironizzare sul panorama letterario contemporaneo: operazioni sempre culturalmente personali, con riferimenti storico/letterari. Di qui un flusso materico collegato alle tendenze strutturali del Gruppo 63: la strofa si fa più corposamente discorsiva, il frasario disappuntato, una certa voglia si misura con esemplari dell’ultimo ermetismo. Peraltro Astoria 327 dell’‘81 (non fermarsi alla prima impressione) è particolarmente intensa nel recupero di frammenti d’anima che assolve il corpo. Alla trama di fonemi fortemente incisi (una lunga serie di erre “recupero frammenti strebbiati gazzarra | ...”) danno tregua i versi intensi dell’ultima terzina “Rinnovami tu il mistero della luce...”. Ma il contrappunto rivuole nel corso di Astoria la cattiveria verso sé ed altri “(disfo il nodo alla cravatta ed introibo) so appena che | mi difendo resisto per non soccombere mi recito | il nonostante tutto...”. Un treno appare come in altri luoghi/lirica e il verso s’attarda in un adagio.

Negli anni ‘80 la creatività è sempre più una prova culturale: nel discorso un piacevole ricorso alla lingua francese o, in minore, ad altro linguistico, quando un istintivo e sapiente appello alla grazia lo vuole.

Dalle res minimae giornaliere, dal gusto per microcosmi d’interno soffusi di dolcezze (in quanto poesie troviamo innocui elementi destinati a divenire deliziosi punti di riferimento), ai sentimenti di Resistenza, tenuti in uno spessore di civiltà costantemente costruite sul filo della memoria (non scossa da retoriche sembianze e uterini furori): “quando si vide il nero proclamarsi luce...” (il predicato verbale enfatizza l’opposizione); e l’impegno non sacrifica la lirica. Per il poeta sarebbe facile trasmodare, ma un merito di questa poesia è la rigorosa tenuta che non ammette cedevolezze lungo l’iter “e le ore dissolte nel quotidiano da noi a noi stessi | rubate ... poi riassunte nella memoria da un’immagine | un gesto... e tutta vi consiste una fetta di vita”: l’offerta del poeta nella confidenza del dire, amaro/ironico, malinconico, denudato.

Come amar meno queste strofe (le 18-19 sillabe dei versi lunghi di Tabes del ‘78) rispetto a quelle posteriori di Versi per una fotografia di Teresa di Lisieux, liricamente trasfigurate? “lasciarsi rapire dalla sofferta luce | per un volto così si può tornare | a ri/sentirsi fra uomini e salire”. Una scelta (talmente) accuratamente invisibile di vocabolario in quest’ultima composizione da donar fiducia a un assoluto di semplicità.

Così affascinanti le pur differenti metodiche da avvezzarci alla riscoperta, ogni volta, dell’opera compiuta; se non c’imbattessimo nelle impennate dei superamenti, dalla complessità di forma e sostanza all’iterazione ossessionata; se non c’imbattessimo in Sudità, un’obbligata violenza alla violenza da questa estrema “implume vecchissima insularità da viversi sulla pelle come nigritia”; il sud che sente (ma non dovrebbe) come una radicalità di colore, o che non sente (e dovrebbe?) questa infamante eroica diversità. Nigritia intesa agli antipodi della consapevolezza intellettualmente fiera di négritude.

Nonostante la mancanza di una chiesa o di una fede, tuttavia l’ateismo non è contemplato. Circola un bisogno, un’intensità spirituale che si ricollega ogni volta, alla bellezza. Due o tre volte il Signore (Mani) o Cristo (“... Tu stai sempre lì in calici d’oro...”) e ancora “Tutela se puoi... la nostra relativa solitudine” sono messi di mezzo, costretti a confrontarsi con noi. Ed infine il bellissimo Golgotha, dove non si perdona al Padre/padrone di aver sacrificato il Figlio “così va il mondo voluto dal Padre... Ogni resurrectio ha la sua punta d’amaro”.

L’ironia acutamente alleggerendo, elimina ogni rigurgito retorico. L’intensità degli aneliti a un demiurgo di giustizia e di pietà non scalfisce la solitudine dell’uomo che pur ha bisogno del riferimento umano, in ultima scelta l’identificazione amorosa della Casarca e precedentemente, quella dell’“equipaggio minuscolo” in L'estate del bucaniere. La “gatta dell’anima” che va al “rosmarino (e fu allora che dovette lasciarci lo zampino)” è un modo di riferirsi, un passaggio, a quell’ampia sfera della complicità sentimentale nella solitudine dell’io esistenziale, a cui partecipano varie composizioni, da Memoria di scirocco (“ci salva | la nostra coesione un singolare modo di tenerci a galla | persino la zuppa di fagioli...”, al tacito malinconico accordo sul treno della Maiella, alla bella, intensa Cantata delle brevi assenze (“Quale pena indicibile ogni solitaria partenza ... ogni separazione | il periplo dei giorni in cui si frangerà | il rituale umile e fastoso della presenza | che nuovo ogni attimo ci rende e all’unità | riconduce...”

Punto inequivocabile e ricorrente è la dignitosa non sopportazione (“e poiché non offendo m’è dura fatica il perdonare”) nel lievitante Frammenti per le creature, graffiante doloroso coro/cantata “(alcune le rendemmo prigioni per diletto istraziate | per studio et ornamento)” ed “eccola veramente lapidata poi che fu ridotta | (o la più candida fra le mie sorelle) a meretrice | e sarà il suo sangue a scorrere nelle vene del mondo | il giorno in cui” il giorno di una consapevole collettiva rivolta, che inizierà con la parola gridata, la parola rimoltiplicata che scorre a fiumi (“incidere un basta immane”). Morti ricorrenti che si presentano nelle più svariate maschere, come la dignità calpestata nella sacralità umana, perché “questo l’oscuro punto il luogo frequente ove riposa | la sconfìtta eppure là si muore ad ogni prevaricare | d’orgoglio...” (ma “abdicare è già cominciare a morire”). Un nome per tutti i martiri dei campi di sterminio. La parola, anche quella che si leva dalla poesia (e questo cin- quantennio è splendido nelle sue punte di diamante letterario) è giusta e necessaria (Adorno disse che dopo i campi nazisti nessuna poesia avrebbe dovuto più avere spazio: riteneva l’ars poetica non degna, incapace, oppure si prefigurava il silenzio come il bene migliore?). Cantata questa “per le creature” che, unitamente alle altre dolenti amarissime mature Lamentazioni d'Orfeo, costituisce il nucleo pubblico, universale, filosoficamente pensoso della raccolta e in modo sistematico, preso nel suo insieme, dell’intera antologia. A volte la corposità di versi non particolarmente poetici che risvegliano il senso del tremendo (in senso biblico), offre di più di una istantanea trasfigurazione.

Del ‘79 Sessantacinque versi per il treno della Maiella, intensamente amaro punto fermo per superare gli incroci; − punto quieto dove arriva scorato il diapason dei più cruciali motivi di vita. Il cuore libera, finalmente, il dolore rimosso. “Abbandonare Troia prima che entrino falsi cavalli, non per un’altra capitale di regno, ma per un povero paese aggrappato a una collina”, anche se tanti “avranno appeso | un frammento d’anima ai costoni bianchi | per frastornanti lidi per frustati sogni | lassù dove non giunge eco di questo sferragliare di rotaie...”.

Sono momenti di abbandono dettati dal cuore, che cede ambizioni e possibilità per conservare “un nucleo intatto” dall’ombelico materno, in linea diretta, alla “sacrafamiglia”, che si costituirà poi nei pochi, essenziali rimasti a galla dell’arca. “Piantare tutto...”; ma per un altro genere di sogni mancati, per gli inaccettabili generali egoismi, per rapporti non avverati” il mio (prossimo) spesso mi sgraffia si fa disamare” (e ancora la forzatura linguistica per segnalare fortemente la volontà di un nuovo conio). È questa la concentrata disillusione di Bonsai, una delle migliori commosse sillogi stilistiche di Zinna, con la rapida zampata di || mio prossimo’, aldilà degli spazi per un lievitante sarcasmo e dell’incantata speranza della Tartana, il segno dell’ “oltre”, dove il mondo si fa quieto e rispondente ai bisogni “nessuno grida bisbiglia ne riti governa” (l’essenza del Potere e della contrapposta paura). Con Bonsai (1984/88) è tornato il gusto per la battaglia; un recupero smagliante, tra qualche ombra scura.

In Minutario postumo dell'eroe vagabondo la tentazione dell’epica trattata con misura (ed ironia), equilibrando cultura a lirica, umana storia a mitologia. La prima persona (ed anche io narrante) è pur sempre la ricca voce del poeta che rischia e controlla eventuali scivolamenti sui generis. Ulisse re ha solenne la voce, pare sottrarre levità alla sostanza lirica, ma lascia soave il periodare. Omero vigilai e così non permette all’instabilità del mito di usurpare spazi: nascere e vivere in un’isola (in tutte le accezioni anche di emarginazione) non deve attrarre il mito in un’identificazione totale. Anche se l’epica mitologica e favolistica in Sicilia non è soltanto tentazione letteraria, ma storia e costume tradizionali. In Lucio Zinna, poi, abilità e ironia fondono il compromesso tra generi: “per un’isola minuscola ora si danna la mia carne e dentro il peplo la mia mano ti cerca | mentre smanii (nota la ricercatezza) e senza marijuana smarriscono i tuoi occhi...”. L’attenzione al dato linguistico è una costante − tra le altre menzionate − di questa poetica, stringata sì, ma dalle ampie risonanze (vedi a pag. 154) “La mia origine è quella che sorge da un tremore | di vene da un sogno d’infinito da ventre di donna...”; che parte da Montale stringendo, asciugando; da Luzi (e chi più del poeta siciliano poteva condividere, di Luzi, il flusso e il suono delle acque, l’amore per il mare, l’archetipicità dell’elemento acquoreo?), meno casta e più ribollente, sensuale e riottosa, ma che soprattutto, se ha mancato qualche adagio, è costruita con un linguaggio tra i più ricchi e variegati della nostra poesia odierna.

L’intera antologia Il verso di vivere, stampata egregiamente da Caramanica Editore, mette alla prova i generi letterari, non più classici ma di attualità; dalle composizioni brevi e secche, un mordace stile epigrammatico che fa il verso al moralismo, a quelle dalla distensione (frasi medie che lasciano il gusto) elegiaca; il verso del vivere fustigato e messo alle strette da un gioco sferzante che sfocia in lirica quando meno te lo aspetti (e la sorpresa avvia un risultato che non cede mai alla noia e al rilassamento), fino alla satira acre in doloroso crescendo nel De rebus Siciliae del ‘91. Il rancore avanza aspro, senza più il gusto di cambiare registro, perché la denuncia è forte e implacabile. Anche l’ironia iniziale “che − si sa − a un certo | punto anche i muri finiscono”, a proposito di uno “spray-graffito” apparso a Pavia “Più il Sud ride più il Nord paga”, non può contenere oltre la propria relativa leggerezza, così che dal “Ma il sud non ride... la mia gente impara a sentirsi reproba | scopre le sue storie... che le storie d’Italia non ricordano”, la civilissima ode, dalla forma inappuntabile, si fa pura denuncia. Essendo dalla stessa parte, giudico le “storie” nel De rebus Siciliae accennate, se possibile, con maggiore (perché non partigiano) senso critico, coinvolta nella colpevolezza e nel disprezzo, non potendo appassionatamente e con un’intera isola, appellarmi.

Torno alla poesia di Zinna, contenta che abbracci le diverse forme di espressione, a quell’appassionato colloquiare, a quella mediterraneità, ma non solarità (se me lo concedono gli esegeti che vorrebbero identificare in quella specificità i poeti siciliani); no, il poeta/scrittore Lucio Zinna, scolpisce le ombre, si aggira e dimensiona in quel vasto continente delle nuances, dei chiaroscuri, di una non cedevole malinconia.
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