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Giarmando Dimarti
Poesia singolare e lingua sui generis

Paideia nr. 42-43/2018
Una delle caratteristiche della scrittura
di Giarmando Dimarti emerge da quella sua presenza di persona che ha a cuore le
sorti della vita di tutti e della terra-mondo che lui abita e che, meglio, lo
abita.
Giunge a questo punto il poeta di Porto
San Giorgio tenendo insieme la sua cultura anche esperienziale – su cui rimando
alla biobibliografia in calce a queste mie note critiche – e, cela va sans
dire, una sensibilità che gli permette di introiettare molte corde di una
realtà storica e cronachistica stonata, assurda nelle premesse e nelle
conseguenze. Molte corde di una trama fitta di difficoltà relazionali tra i
viventi o di una relazione d’amore improba. Soprattutto, di un muro esistente
tra chi forma il tessuto del contesto umano e i pochi che, sopra il tessuto
primigenio, concorrono o a non comprenderlo, pur avendone la responsabilità, o,
volutamente, a stravolgerlo per fini economici, economistici individuali e
globali. Queste le premesse di una prima lettura di raccolte poetiche
succedutesi dal 1978 al 2016. Che sono nate da (e hanno incontrato, quindi) anni
e tempi differenti nella cronaca.
La vita di Dimarti, poetica intendo,
nasce e si dirama dalla necessità di “dire” e di “ribadire” la sostanza di ciò
che si vive o che non si vive: compulsati e spinti da un cambiamento come
categoria cui conformare il pensiero e il comportamento odierni, quando il
cambiamento è solo un’illusione, una prospettiva suggerita da chi, per dovere e
proprio piacere, la prefigura, e il comportamento non è sinonimo di libertà di
scelta.
Certo, la poesia di Giarmando Dimarti,
che fila il filo ritorto in questi canali, interessante anche per una certa
poematica insensatezza barocca (nella messa in scena quotidiana talora
paradossale), nell’arguzia, appare non distesa nella ingegnosità: mira a
catturare il desiderio di approfondimenti e di scavi, ma, ancora più sotto –
nelle pieghe del corpo – il desiderio di ritrovare genuinità del vivere e la
spontaneità negli intrecci dell’esistenza. Il rovescio, cioè, dei versi che,
debordando infervorati («mi spinge una stagione trarupata / di cui sconosco
l’arena delle sue piantagioni / putride il profilo aperto / degli zampillii
clonati il vomito / ingiallato come un tamburo di nuvole / e amori infruttuosi
insonni dementi che gemono / davanti a chiese asserragliate», È tutto sotto
controllo, p. 15), narrano e descrivono grandi e piccole cose, eventi e
avvenimenti conclamati. Asciutti talora, interlocutori talaltra, epigrafici a
volte: rilasciano così il bisogno, intrinseco, di agire l’essenziale, di
ricercarlo, se lo si è perduto, smarrito, se, costretto, ha virato in altri
canali, se si è ispessito per un sentire “traviato” dall’esteriorità.
Un essenziale ravvisabile nei
titoli delle singole raccolte: il cantare del grillo, la pula, la porta d’acqua,
per esempio, parlano già in sé, mentre il tempo, palese o silente, è gradino,
pur scivoloso, cui non si sfugge. Oggi così. E ieri?
Giarmando Dimarti non porta a soccorso la
memoria per dire la trasformazione indotta e còlta come un cortocircuito
intellettuale, quella mutazione antropologica già individuata da Pier Paolo
Pasolini o, per altri versanti, da Eugenio Turri, semiologo del paesaggio.
Concentra, per lo più, lo sguardo
sull’andirivieni d’attorno caotico e consumistico (quattordici sonate e una
sarabanda), su un degrado inarrestato (la pula il vento), su uno
sfaldamento dei rapporti interpersonali: a fronte di probabilità che possono
essere trovate (De(ll’) amore; È tutto sotto controllo). E, quasi
ultima risorsa, sulla vicinanza francescana (il tempo che ci siamo dati)
come risarcimento ignorato eppure vivo da secoli nel quale ha un suo posto,
indirettamente veicolato, un cantico delle creature. Amoroso, a larga
maglia.
Fin dal primo libro in cui il
cannocchiale è rivolto in prevalenza su di sé:
«È possibile toccare le ragioni che asciugarono / il mio essere / in
molti silenzi, e le canfore che rampicarono / con aeree mani / ad una febbre
senza tregua, / forse d'improvviso. / Vado in un segno / come carcere / confuso
a chi vorrebbe sconvolgere una vendetta / che conosco sicura. E pesa / la mia
preghiera senza verità», Elegie dopo, p. 18). E in molte delle altre
raccolte: «Dove giri al vento la piccola
vela del tuo cuore / o dove precipiti il tuo abbandono strepitoso di donna / io
non potrò mai sapere: / posso / solo sentirlo /dalla mia stupidità usata / di
uomo /circondato / di uomo / che vorrebbe essere penetrato dal tuo galoppo
disperato / dal tuo fremere incessante / di umore oscuro sostanziale»,
Arlecchino e Colombina,
p. 21);
«pauco jiorno me jiorna / pauca luce me luce /
pauca pietas me storna / dona mihi lo jiornato giorno / la luciata lux perpetua
/ la pietà che me restorna», El grillo è buon cantore, p. 30); «e datemi
un amore dimenticato / un avanzo d’amore insignificante / che nessuno vorrebbe /
legato neanche ad un impercettibile battito / del seme che radica nell’astratto
del sonno / un amore idiota come un peluche piluccato / lì edificherò il mio
debole cuore girovago / perché nessuno lo sappia / e lo venga a cercare»,
quattordici sonate e una sarabanda, p. 15); «raccolgo tutto ciò che resta
agguerrito / del mio incalzante pensamento effimero / per costringerlo al
ravvedimento / e disporlo a una volontà diversa / fuori dal tarlo annidato
dentro il senso comune / dentro l’andazzo accomodante merciaiolo pianificatore /
di questo presente indifferente allo spirito / e alla sua transumana grandezza /
e mi vangelo nella parola altra che clara bruciante e mai non muta», la pula
il vento, p. 64); «fratelli nella
nascita e nella carne / fratelli nella acerba vita e nella morte aperta / mi
riduco al fondo della vostra pena infinita», il tempo che ci siamo dati,
p. 33).
La poesia diventa figura ed immaginazione
per una lingua che, nell’inventarsi e, ogni volta, reinventarsi, trova la realtà
e la materia del suo oggetto esterno come proiezione di sensazioni, emozioni,
lucidità. Lingua italiana mescidata al dialetto, ripescata dal latino e da
autori italiani del due-trecento, delle origini, ricca di neologismi. La varietà
espressiva va a comporre la varietà del testo, a dilatarne la materia come
sfrangiamento della realtà – anche interiore – sofferente e irritata.
Con una passione manifesta nella parola
fatta corpo. Metafora e corpo di una realtà il cui ordito è stato indagato da
pensatori molto amati da una generazione giovane, quella degli anni Settanta e
Ottanta del Novecento, ossia quella di Dimarti stesso: Marx degli scritti
giovanili, i pensatori francofortesi, in primis Adorno di Minima
moralia, e da intellettuali italiani che più hanno avuto al cuore del loro
pensiero l’analisi della società, dei falsi cambiamenti, delle derive. Pasolini
già nominato. E, per gli stimoli di incontri quotidiani nutritivi di Giarmando
studente e, poi, giovane assistente all’università di Urbino, Italo Mancini e il
suo cristianesimo dell’umanità smarrita, Carlo Bo e la letteratura innervata nel
vivo della vita, a cominciare dai narratori francesi del Novecento. Più tardi,
Umberto Galimberti, per l’attenzione al “corpo” e al “corpo d’amore”.
Ma non si rende ragione al poeta di Porto
San Giorgio se si dimentica la sua immersione, anche di studio, nei classici (la
natura lucreziana, il tempo rapinoso di Orazio, la sapidità di Marziale) e nei
poeti e scrittori del Novecento italiano: Montale, Rebora, Luzi, Pirandello.
Aggiungerei Mario Pomilio: il dentro/fuori etico intrigava le nostre coscienze
negli anni Ottanta. Altri. E non gli si rende ragione se non si considera la sua
operatività culturale e di insegnamento, nel collante di una fede laica,
fortissima, che non gli permetteva di astrarsi dalle temperie storiche e da un
agire, in una falsariga pedagogica senza stampi precostituiti, per ricapare
dentro le temperie un “meglio” a venire.
In questo ponte (tra il non è e il
desiderato) scivola e si dilata lo sgomento tramite una lingua spesso franta,
sincopata, viva delle particolarità individuate. Singolare anche rispetto al
versante della poesia marchigiana. Noto questo en passant. Solo perché
a questa poesia hanno dedicato antologie (dal 1972 al 2016) Carlo Antognini,
Guido Garufi-Remo Pagnanelli, Alfredo Luzi-Raffaello Ventola, Luigi Martellini,
Guido Garufi, Lorenzo Spurio. Talora rintracciandovi caratteri comuni:
ascendenze leopardiane, attenzione al paesaggio, liricità, formazione. Se tratti
affini si possono richiamare per Dimarti potrebbero essere visti, ma è solo un
cenno cum grano salis non una comparazione, in certe poesie di Paolo
Volponi per la cadenza del “testo a fronte”, o di Ercole Bellucci per il
continuo persistere di dinamiche linguistiche in quanto tali (lessico, metrica)
non ripetitive.
In quel “ponte” la singolarità della
poesia di Giarmando Dimarti: sulla scia di autori italiani i quali, almeno dagli
anni Ottanta del Novecento, hanno tenuto, sperimentali o meno, come punto fermo
di lasciare al passato i leopardismi (ma non il Leopardi della Ginestra) e
pascolismi e hanno indicato una strada di sovvertimento, di conferma della
necessità di una scrittura per tempi nuovi, di sconferma dunque del lirismo.
Mario Luzi può essere, per Dimarti, un irrinunciabile maestro per l’attenzione
alla sfaldatura della coscienza civile. Dimarti però ha virato, alle soglie di
questo millennio – quando ha ripreso la poesia lasciando agli inizi la
sentimentalità della perdita – sulla insistenza espressionistica della
sfilacciatura di quella coscienza, intravvedendo in controluce la consapevolezza
da acquisire. Dolente benché irridente, consapevole sempre e in ogni caso che un
passato valoriale è stato portato, irrimediabilmente, in secca e relegato in
scacco. Bisognerà, nella saldezza di valori umani non a termine, rinvenire altre
modalità in cui trovarli e agirli.
Maria Lenti
Giarmando Dimarti è nato a Porto San Giorgio. Risiede a Grottammare. Docente di
materie letterarie e latino a Fermo, direttore della biblioteca civica di Porto
San Giorgio, regista e sceneggiatore teatrale, redattore dal 1977 al 1978 di
«Garofano Rosso», una bella rivista letteraria di Fermo, collaboratore del
«Corriere Adriatico» (dal 1984 al 1985), socio effettivo della Accademia
Marchigiana di Scienze, Lettere, Arti, ha pubblicato numerosi studi storici,
divulgativi, artistici. E le raccolte poetiche: Elegie dopo, La Rapida,
1978; Arlecchino e Colombina, pref. di Alfredo Luzi, Bastogi, 2000; Overdose, Stamperia dell’Arancio, 2001;
Palau notes, pref. di Antonio
D’Isidoro, Bastogi, 2001; La porta d’acqua, pref. di Antonio D’Isidoro-
nota di Enrico Piergallini, Stamperia dell’Arancio, 2003; A dispetto del
tempo, pref. di Valerio Rivosecchi-nota di Lucilio Santoni, Stamperia
dell’Arancio, 2004; De(ll’) amore, pref. di Allì Caracciolo-postf. di
Rubina Giorgi, Stamperia dell’Arancio, 2006; El grillo è buon cantore,
pref. di Maurizio Marota-nota di Lucilio Santoni, Tipografia Visconti, Terni,
2007; È tutto sotto controllo, pref. di Gino Troli, Canalini e Santoni,
2009; En dehors, Marte, 2010; quattordici sonate e una sarabanda,
pref. di Manuel Cohen, Marte, 2011; la pula il vento, pref. di Alfredo
Luzi, 2013; il tempo che ci siamo dati, Livi, 2016.
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