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Appunti, pensieri, riflessioni, scatti e desideri,
sentimenti, ripensamenti: su questi materiali – spesso avvoltolati su se stessi
e lasciati agire al di là della loro fruizione proprio come in un diario – Mila
Marini snoda Qualcosa di più. Un romanzo di fatti e di attese, di perdite (la morte) e
di incontri (l’amore), di certezze (Dio, sempre presente), di lavoro (in
ufficio) e nel proprio studio di artista: la protagonista si scruta e si fissa
nella pagina, quasi a segnare il suo cammino per un possibile tornarci su o per
ritrovarsi. Il gioire, il dolore inevitabile, le fibrillazioni del corpo sono
fuori dalla pagina. Volutamente, sembrerebbe. Si privilegia la scansione
mentale.
Prende corpo la nuova opera d’arte della protagonista e
una nuova sua storia d’amore: entrambe accennate, entrambe visibili, nella
mostra finale, nel “qualcosa di più” che porterà i due, almeno momentaneamente
ma forse per tanto tempo, ad essere coppia, come l’arte è viva nella mostra che
la contiene, con successo peraltro.
Vicenda tesa, narrata per passi essenziali, più lasciati
intravedere che rincorsi o percorsi nei sommovimenti interiori: alla fine la
protagonista risale da una sua assenza (per la perdita, per l’incertezza nel
ritrovarsi, la difficoltà di creare) all’esserci. E si costringe a non
debordare, a non farsi sommergere da contesti intriganti e a non immergersi più
del dovuto nel buco nero dei “non”. Perché consapevole che un ”qualcosa di più”
si sfila, prima che da altri, da un sé finalmente capace di vedersi nella sua
interezza. Capace di ricominciare, dopo tutto. Dio non l’ha abbandonata.
Rivisto e calato nell’oggi, un nouveau roman
rientrato dall’oggetto al soggetto, almeno per quel che concerne il distacco
della narratrice dalla materia narrata, potrebbe essere un lontano antecedente
del romanzo di Mila Marini.
Qualcosa di più,
block notes o diario, si affida infatti alla nominalità e non alla
narratività verbo-temporale più conosciuta e distesa, alla lucidità del pensiero
non alla tenerezza sentimentale, cogliendo delle cose che succedono (o non
succedono) la stringatezza dell’accaduto. L’io che narra ignora o sottace il
gioco tenero del cuore. Si inoltra nei canali dei giorni con uno sguardo
asciutto e impersonale. Ma vivo:
«La vita mi ha accolta e l’amo ancora».
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Recensione |
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