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Riccardo, la pandàfeche ed io

Tendenza letteraria di quest’ultimo decennio e necessità di portare a emersione i risvolti di giorni nebulosi e indistinti nella loro interezza, oggi-così come sono-come si snodano, nella chiarezza più o meno acclarata dei propri desideri e nella relazione con chi affianca le vicende di persone reali divenute  protagoniste di romanzi o di racconti.

Una tendenza della narrativa italiana, ma una tendenza presente in altri paesi, di lingua anglosassone per esempio almeno dalla metà del secolo scorso: esperienze e loro complicanze soggettive messe nella luce della pagina, come consapevolezza degli agonisti e gradino su cui il lettore può riconoscersi per non sentirsi più né ai margini né solo con i suoi problemi e intrighi psicologici. Contemporaneamente, letteratura vòlta a fare del reale un lenzuolo di confronto e tenda da spalancare alla vita per chi la vita la vuole vivere secondo le proprie inclinazioni sentimentali e sessuali, secondo il suo status.

Gaia Micolucci, nel suo primo romanzo Riccardo, la pandàfeche ed io (Robin, 2019), percorre questa strada. Narra di Victor, un ragazzo, studente e giovane, che scopre, dopo averla rifiutata nel suo amico Riccardo, la sua attrazione per i coetanei maschi. Attraversa sconcerti e difficoltà,  avvicinamento alle (e rifugio nelle) ragazze per accertare la condivisione del suo essere da cui trarre la differenza, in sé sostanziale, tra il rapporto omo o etero. E la trarrà sentendo la diversità del suo stare con l’una o con l’altro. Subisce denigrazioni, emarginazioni, ma ha il privilegio anche di sostegni. Registra dentro di sé tutta una gamma di sensazioni, di emozioni, negative o positive, fino alla sua crescita in stabilità.

La quale si chiarifica nell’accettarsi e godere per quanto è viva la sua interiorità nel momento in cui quel suo “tendere” si rivela un “essere”, il suo “essere”, la sua scelta, mentre la pandàfeche (dialetto abruzzese, di Lanciano) – lo spirito maligno che, masso sul petto di notte, lo soffoca – scomparirà portando con sé paure, remore, dinieghi, non ammissioni. «Storia di conoscenza e accettazione, (racconto) delle nuvole che offuscarono a lungo la mia mente – dice il protagonista nel Prologo – e del vento che, per fortuna, venne a spazzarle via inondando di sole la mia vita. È una storia comune, quasi banale, ma non vuol dire che non sia straordinaria, così come lo è anche la più straordinaria delle vite.»

Gaia Micolucci fa pervenire il suo eroe alla conoscenza su una scrittura veloce in terza persona nel tempo (indicativo imperfetto) della narrazione consolidata, con dialoghi, impressioni, soliloqui dentro spazi diversi: famiglia e scuola, luoghi di svago. E con il parlare dei tanti personaggi: gli epiteti verso il ragazzo, l’esprimersi dei giovani d’oggi che si capiscono nel loro discorrere in fondo dicendo molto o dicendo molto poco.  Con ciò connotando paesaggi esterni e interni.

Si può leggere questo romanzo quasi come una sorta di bildungroman...con le uscite, le negazioni, le riprese, fino alla consapevolezza e al dire sì al proprio sé e al proprio agire in chiusura di vicenda, fino alla chiarezza cui tende tutto il racconto puntellato di particolari. Victor arriva alla prima giovinezza rincorrendo una verità che, rimossa, lo fa stare male, riconosciuta, al contrario, lo fa star bene. Poi, sarà quel che sarà: la vita potrà variarla come vuole o la vita lo porterà, magari, in altri terreni. Chissà. Intanto vive la sua storia quotidiana con serenità e trasporto.

Recensione
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