|
Il sandalo di Nefertari Il mistero di un sandalo scomparso, un mistero incubato per decine di secoli sotto le sabbie brucianti del deserto ed ora all'attenzione di sciami di visitatori curiosi nello splendido museo egizio di Torino. Così comincia la bella raccolta poetica di Rossano Onano, giocata fin dal titolo e dalla didascalia del frontespizio su una “mancanza”, un'ombra seducente, un posto vuoto. Ho detto “comincia” ma, a pensarci un attimo, forse ho sbagliato: può davvero “cominciare” un libro di poesie? Non è forse la poesia il sottile “filugello” di un gomitolo infinito di “voce”, non è forse un breve segnale radio captato in un mare di interferenze elettromagnetiche? Ed allora la poesia non comincia perché è sempre già cominciata, già “detta” e non “dicente”. Eppure il libro di Onano “comincia” e si lascia leggere come un romanzo giallo sotto il segno dell'inadeguatezza, dello scambio di ruolo. Stia attento il lettore, non può leggere quest'opera tranquillamente sprofondato nel suo comodo divano. Dopo i primi versi capirà che si parla anche di lui, dovrà quindi alzarsi dalla sua poltrona per trovarsi ora nel deserto accecante, ora sferzato dal vento tagliente di un'immensa “piazza”. E sarà solo, fatalmente costretto a giocare la “partita”. Il problema è che non c'è un avversario, non si conoscono le regole del gioco, è inutile progettare strategie. Nella poesia La vincibile armata Onano dice: “Una lunga milizia di ragione: noi / abbiamo rispettato le regole d'ingaggio, / senza saper quali fossero, chi le avesse / in qualche modo pronunciate”. E nella lirica 4-4-2 la metafora sportiva è disarmante: “La squadra era disposta molto bene / il guaio è che i giocatori si sono mossi / hanno corrotto la geometria / fino a quando un rimpallo un tiro casuale violento / ha deciso la partita / come appunto avviene nella vita. / Fino a quando la partita è finita”.
Intanto, in una piazza gelida, che ricorda un “Cremlino” in bianco e nero da cineteca, un colonnello dall'elmo piumato riunisce la truppa per una strana “adunanza” in onore di un “altro che geme polline dal magro corpo ferito”. E dopo alcuni meccanici e compulsivi saluti, nel “freddo (che) assalta le giunture” “è subito paurosamente lontano” fra lo stupore dei mitili. Si tratta del congedo dalla guerra di un eroe? Forse è il congedo dalla vita, dopo la “trasferta terrestre”. Il problema è che il compassato colonnello comincia a pensare che “queste adunate sono necessarie allo spirito di corpo”, ma “con l'andare del tempo inutilmente dispendiose” (si veda la lirica Piazza grande). Probabilmente Onano ci sta informando che siamo al tramonto, al crepuscolo dei valori, delle illusioni, di tutta la rete di convinzioni e convenzioni istituzionalizzate che hanno permesso all'uomo, malgrado tutto, di continuare a vivere e sperare. “Sovrastrutture” direbbe Marx. Ma anche Foscolo, alla fine, sembra aver alzato bandiera bianca. E' ormai difficile credere in un “senso”. A furia di “elaborare” abbiamo esaurito i discorsi possibili, le ragioni, le “finzioni”. La “guerra” è una scena ricorrente nel libro, ma la guerra non è l'accampamento, non è la “parata” militare, non è ordine geometrico, bensì caos. Nella battaglia “tutto si faceva da sé” dice Tolstoj in Guerra e pace. Ed Onano dal canto suo afferma: “La parola è alta la parola è forte la parola è una bella cosa / però ci abbisogna un luogo donde pronunciarla”. E' questo il dramma. Non disponiamo più di un “luogo”, manca la heideggeriana dimensione “abitabile” in cui pronunciare parole sens ate. L'esistenza si è rotta, scorre via da mille crepe, manca un sistema di riferimento, manca uno spazio semiotico. Gli esseri umani sono ormai una milizia allo sbando, in ritirata, e qualcuno comincia a dire: “Mio capitano di milza e passione / abbiamo perso le nostre battaglie. / Meritiamo l'onesta diserzione / nel lento carro delle vettovaglie” (Rispettosamente). Ai valori che, storicamente, ci hanno permesso di vivere fino ad ora, a quelle solide illusioni personali e sociali che ci hanno fatto tirare avanti “come se” la morte non esistesse, oggi non corrispondono dei contro-valori altrettanto efficaci. L'umanità è vecchia, coperta di piaghe profonde; si nasce già vecchi, come i fanciulli dalle “tempie bianche” di cui parlò il greco Esiodo, come il puer senex dei miti latini. Le soluzioni per evitare solitudine e disperazione sono quasi “patetiche”: “L'amore telefonico”, “l'ipermercato”, “il cellulare”. Ormai l'essere umano è “uomo solitario (che) si aggira in bicicletta / passa su e giù pensando che dono portare, / quando l'ombra sarà insicura e più lunga, / una bambola, la caramella d'anice, il cellulare” (La grande bellezza). Abbiamo investito tutto sugli oggetti e sul consumo, abbiamo “esternalizzato” lo spirito che è rimasto un guscio vuoto, un bozzolo privo di crisalide. Prendiamo in prestito alcune espressioni usate dai rappers J-Ax e Fedez nella canzone Vorrei ma non posto, possiamo affermare che oggi “ogni ricordo è più importante condividerlo che viverlo”. La vita virtuale dei social ha sostituito la vita reale. Ed allora? Rossano Onano sembra suggerire due soluzioni. La prima è quella di invertire la marcia per tornare al corpo, all'istinto, all'utero, all'elemento femminile, azzerando e resettando il pensiero, la costruzione razionale, l'apollineo. Sono molteplici i passi del libro in cui questo elemento pulsionale si presenta sotto varie figurazioni: nella poesia Manu militari forse una metafora fa la sua apparizione “la donna magra” che ricompare, circolarmente e simmetricamente, verso la fine dell'opera, nella lirica Enoc (“Dalla quiete pallida venne una donna magra / Ha un serto do licheni stento sui capelli”). E ci sono ancora i “licheni”, come nella poesia d'apertura (2014): “Nella terra odorosa di licheni, dove stentano gli alberi”. In effetti i muschi ed i licheni sono elementi di transizione fra la foresta ed il deserto, rappresentano la rarefazione, il progressivo azzeramento di vegetazione fino al niente, fino ad una bianca distesa di ghiaccio. E' il grado zero del senso, è l'immagine della “Groenlandia” raggiunta da Erik il rosso. Ma il deserto può voler dire anche nuovo inizio, “terra nuova”, possibilità di parlare, credere, vivere nuovamente. L'elemento femminile può generare nuova vita, come si dice in Lev Tolstoj interroga la Matrioska: “E l'atomo del tuo ventre cresce ed io / sarò espulso presto da te, Matrioska dall'ampia cintura, che contiene / colei che contiene la contenente”. La Matrioska è una Magna mater feconda di vita; bisogna ritornare nel suo grembo, nascere al contrario, per poter risorgere daccapo. L'immagine di questa “inversione” la vediamo sintetizzata nella ragazza “dal piede torto, ma strepitosi occhi dilatati sulle nostre appendici virili”.Occorre dilatazione e divaricazione, cioè apertura di corpo e mente, per poter nascere ancora, per non finire vittime dell'implosione cerebrale, della follia pura. Troppa morale, forse, troppo pensiero. Bisogna lasciarsi andare, come di fronte alla Muchacha morena, pensando che “la carne” è “un po' sciocca”. Bisogna “de-razionalizzare” dunque, e “de-razionalizzare” proprio per tornare a vivere e pensare. Ed ecco che nella grande biblioteca, metafora letterale della storia e della cultura umana, “sopraggiunge finalmente il silenzio, / da chissà quale tana nascosta o gronda / compare, grigio nell'ombra, il tenace / sorcio di biblioteca, annusa la polvere / dei libri ordinati negli scaffali / spalancati, annusa, tasta la carta / matura con i baffetti aguzzi, / addenta la bibbia di Borso d'Este”. Questa può essere una soluzione, spegnere la luce, cancellare la lavagna, ritornare nella notte dionisiaca del grembo femminile. Ma questa è solo la prima soluzione del giallo. La seconda (e ritorniamo all'inizio del libro) è misteriosamente chiusa e criptata in quel piccolo sandalo di Nefertari. Bisogna accettare il fatto che il mistero c'è, esiste proprio perché sta aldilà, nella sua stessa assenza. Con un gioco di parole diremo che “assenza” è“essenza”. L'unica speranza è proprio, come il sandalo, l'assenza presente, un'assenza di ciò che si conosce, non l'assenza di quanto non si conosce e che potrebbe non esistere. L'altro sandalo è la possibilità di una nuova metafisica, che è fondata a partire da ciò che sappiamo, un “al-di-qua”, una “cis-fisica”. L'altro sandalo non è visibile, ma sappiamo che “doveva” e “deve” esserci, è “l'ultimo feticcio” che deve esistere proprio perché manca. Questo ci tranquillizza e, nel contempo, ci spinge a cercare, ad andare avanti, ad evitare la disperazione quieta. Per “vedere” ancora qualcosa ci vuole chi, opportunamente, sappia chiudere le vetrate “perché la luce non tracimi dalla fastidiosa prateria celeste” (Borso d'Este). Il sandalo mancante mi piace immaginarlo come il kolossòs, l'inquietante statua che Admeto adagia nel talamo al posto della moglie Alcesti, destinata a morire sacrificandosi per il marito. Come il kolossòs, la statua, è il legame che tiene collegate le dimensioni parallele della vita e della morte, così il sandalo mancante sta dall'altra parte, forse nelle mani di Ramesse convinto di rimanere per sempre in contatto con la sua sposa. E' bello ricordare le parole che Italo Calvino fa dire al suo bizzarro personaggio Palomar quando si accorge di aver acquistato durante un viaggio in Oriente un paio di pantofole di misura diversa lasciando il venditore con una pantofola spaiata: “Forse anche lui in questo momento pensa a me, spera di incontrarmi per fare il cambio. Il rapporto che ci lega è più concreto e chiaro di gran parte delle relazioni che si stabiliscono tra esseri umani. Eppure non ci incontreremo mai”. Il grande storico ed antropologo della civiltà greca antica Jean-Pierre Vernant, parlando del tema del “doppio” nei miti ellenici, sostiene che il “doppio” è un oggetto insolito ed inquietante che “si muove su due piani contrastanti... nel momento in cui si mostra presente, si rivela come qualcosa che non è di qui, come appartenente ad un inaccessibile altrove”. Il “doppio” ha una segreta energia magica e straniante. Ogni azione o intervento materiale sul doppio si ripercuote sull'originale. In qualche modo il sandalo di Nefertari ha la stessa potenza soprannaturale del doppio. E resta ancora l'ultimo mistero, quell'uomo piagato al freddo della piazza, davanti ai soldati. Cos'è quel “polline” che esce dal “magro corpo ferito”? Chi è quell'uomo sofferente che presto si dilegua? Da bravo lettore chiamato a “giocare” questa “partita” finale, ho pensato a qualcosa di assurdo, ma l'associazione di idee è stata fulminante ed automatica. Mi si è aperta davanti agli occhi l'immagine della Sacra Sindone, il volto dell'uomo dei dolori, la “fotografia” del Cristo. Ho ricordato di colpo quello che hanno affermato alcuni scienziati in merito al delicato problema della datazione della Sindone: sul Sacro telo sono depositati pollini di oltre trenta piante diverse provenienti dal Medio Oriente (Palestina compresa) e dall'Europa. Considerando che sono sufficienti contaminazioni minime per modificare anche macroscopicamente l'esito della prova al radiocarbonio 14, la presenza di questi pollini può determinare una post-datazione ingannevole della Santa reliquia. In sostanza, è molto probabile che la Sindone risalga proprio all'epoca in cui Gesù fu crocifisso. Non riesco a levarmi dalla mente questa immagine e continuo a ripetermi: l'uomo misterioso “che geme polline dal magro corpo ferito” è l'uomo della Sindone che lascia stupefatti i soldati “quasi vergognosi nella confusa percezione d'amore”. L'amore sorprende, l'amore trasforma. Del resto proprio Onano dice: “Elia sul monte riconosce il Signore nel silenzio di una brezza leggera”. Forse sto sbagliando tutto, ma a volte anche l'autore deve chiedere al lettore per capire qualcosa in più su ciò che ha scritto. E poi mi chiedo: sarà un caso che il museo Egizio e la Sacra Sindone si trovino entrambi a Torino? |
|
|