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Quando si dice “divorare un libro”. Mi è accaduto con Il
Tirolese di Renzo Maria Grosselli. La lettura mi ha avvinto fin dalle prime
pagine. Per la scorrevolezza dello stile, per la tematica, per la calda
partecipazione dell’autore alla vicenda raccontata. Una storia vera di uomini e
donne che, per sfuggire all’atavica miseria comune ai contadini italiani di quel
tempo, lasciarono la patria in un lungo e disagiato viaggio per raggiungere le
lontanissime Americhe. Migranti che partivano per il Brasile, dove il governo
locale offriva a coloro che si impegnavano a lavorare questa terra ancora
vergine un lotto di terreno di una metratura adeguata al nucleo familiare. Come
è ben detto nelle pagine di questo libro (e qui ci si riferisce in modo
particolare alle popolazioni della Lombardia, del Veneto e del Tirolo), erano
tanti i contadini che accettavano l’offerta. Partivano piangendo, lasciando il
proprio paese e spesso le persone care, affrontando un viaggio che a quei tempi
era un’incognita già per se stesso, senza certezze e solo alla luce della
speranza che si sovrapponeva alla disperazione e alla sofferenza del distacco.
Era come tagliare una seconda volta il cordone ombelicale che legava quella
povera gente alle proprie radici, alle proprie abitudini.
Il racconto svela, pagina per pagina, l’odissea di questi
nostri connazionali, la loro delusione, la loro dura fatica per sottrarre alla
fitta vegetazione della foresta il terreno per la semina delle sementi che si
erano portati dietro dall’Italia. Ed è straordinaria la descrizione accurata e
minuziosa che fa l’autore dei territori assegnati agli emigranti e del coraggio
di coloro che sono morti e di quelli rimasti a sudar sangue nelle foreste piene
di serpenti velenosi e abitate ancora dagli indigeni o nelle zone paludose
infestate dalle zanzare. Molto illuminante è il racconto del gran lavoro
pesantemente faticoso e pieno di sacrificio per trovare, oltre il disboscamento,
lo strato di terreno adatto alla semina.
A me, nel leggere, è sembrato di assistere in presa diretta
alle scene di un film che scorre lungo le pagine, tanta è la limpidezza del
linguaggio dell’autore nel raccontare questa che non è una storia di fantasia,
ma una vicenda reale che uomini alla ricerca di nuove fonti di sussistenza hanno
vissuto sulla propria pelle. E Grosselli non trascura di mettere in rilievo
anche le loro emozioni forti a contatto con una terra straniera bella e
difficile in cui creavano problemi anche la continua varietà del clima e la
presenza epidemica della malaria.
Ma non è tutto qui, perché il romanzo procede raccontando
la storia di un particolare gruppo di persone di cui protagonista e figura
principale è un uomo solo, che non ha famiglia, e che tutti chiamano il
Tirolese. Un uomo schivo, taciturno, che fa amicizia con una famiglia che abita
accanto a lui: marito, moglie, due figli e una figlia. Ed è proprio la figura
del Tirolese che tiene vivo il romanzo, nello stesso sviluppo della trama.
Inevitabile l’innamoramento della figlia dei vicini per lui, amore che forse
prova anche lui. Ma il Tirolese, pur avendo rapporti intimi con lei, non
riconosce tuttavia il figlio che lei gli dà. La ragazza lo serve come una moglie
devote. Lui pensa soprattutto al lavoro e, impegnandosi duramente, riesce a
comperare altro terreno e a costruirsi una bella casa. Pur sapendo bene l’amore
della donna che l’ha sempre amato e servito e che ancora lo ama e lo serve,
sposa un’altra.
È un libro scritto con grande bravura, dove non manca
niente: la storia d’amore, il mistero a questa storia legato, gelosie e
contrasti, le immancabili morti, i sudati successi, la ricchezza e i buoni
frutti insperati che produce. Nella cornice di una terra affascinante e
misteriosa che Grosselli riesce a far risaltare nelle sue pagine, un Brasile
pieno di contraddizioni e nello stesso tempo di attrattive, una terra di durezze
estreme e di estreme bellezze, un paese pieno di colori e di magie, pieno di
vita.
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Recensione |
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