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Il carattere organico della nuova poesia: Enrico Pietrangeli
in: Appunti sulla nuovissima poesia contemporanea
novembre 2007
In un famoso poemetto in prosa di Baudelaire intitolato
Perdita d’aureola tratto dallo Spleen di Parigi, due amici si incontrano sulla
soglia di un bordello: sono un anonimo cittadino e un poeta che ha perso la
propria aureola nel fango della strada, che ha perso il simbolo che lo
contraddistingueva dagli altri uomini. Che cosa significa questo apologo? Che il
poeta della modernità è innanzi tutto un uomo di tutti i giorni, costretto a
confrontarsi con la realtà (leggi il mercato). La situazione non è mutata di una
ette per quanto riguarda la condizione del poeta del tardo moderno, anzi, si è
perfino aggravata per due ordini di ragioni: a) per la crisi irreversibile della cultura delle avanguardie intervenuta nella seconda
metà del Novecento; b) per la mancanza di un referente sociale (leggi la
borghesia finanziaria). Nella situazione del tardo moderno il poeta deve fare i conti con la tradizione e con
l’anti-tradizione, con una cultura che esprime un linguaggio poetico
“normalizzato”, in altre parole, con la cultura ufficiale, e con una cultura che
esprime un linguaggio problematico, che tenta la ricezione e la traduzione di
esperienze significative. Questa doppia “solitudine” del poeta è la condizione
di svantaggio nella quale si trova un intero genere artistico, il quale è
irriconoscibile dalla cultura ufficiale, oppure è riconoscibile, e allora sarà
operazione di conformismo e di trasformismo, ricezione acritica del suo
contenuto di verità. In una parola, c’è in atto una frattura e una iattura e uno
iato tra la cultura ufficiale dei paesi occidentali e la poesia, il nesso di
irriconoscibilità che le unisce è il prodotto di una reciproca estraneità. Così
la cultura ufficiale alleva e accudisce la poesia che edifica a propria immagine
e somiglianza, una sorta di controfigura con segno rivoltato, un’arte
“signorile”, addomesticata e frigidamente composta secondo lo sviluppo del
canone prescelto.
Il libro di Enrico Pietrangeli
Ad Istanbul tra
pubbliche intimità (2007), ci rivela un autore che ha attraversato
questa problematica come un nomade attraversa il deserto. Come un
nomade che ha attraversato sia la Tradizione che l’Anti-tradizione. La
solitudine stilistica della poesia di Enrico Pietrangeli non è altro che il
personale attraversamento della destrutturazione che ha colpito il discorso
poetico del Novecento. Il carattere a-norganico deriva appunto dalla irriflessa
presa di distanza da tutto ciò che di “organico” compone il panorama
delle merci del mercato globale e dalla distanza dalla quantità di
stilizzazione portata dalla tradizione novecentesca. Pietrangeli vede un
discorso ideologico nella tradizione che tenta a tutti i costi di evitare. La
stessa ossessione per l’onanismo e il puttanesimo formano la religione del
suo tempo, una sorta di dandismo della suburra. L’omaggio “Alle
africane tunisine” segna l’equinozio con i paesaggi dell’anima: (“A Trieste,
dannata frontiera, | galleggiano fluttuanti nel porto | profilattici con sembianze
di meduse…”), la medesima impossibilità di descrivere un paesaggio che non sia
marchiato dalla presenza di “ordinari orrori”, tutto ciò ci conferma
nella nostra ipotesi che ci troviamo al cospetto di una poesia a
metà strada tra l’esposizione dell’interiorità e la conseguente pulsione
all’inibizione di quella pulsione. L’esposizione della poesia sarebbe un po’
come la mostra delle “pubbliche intimità”, qualche cosa dal sapore di
clandestino e di ordinario, di indecoroso e di impudico. Ecco perché una
esperienza significativa è data da episodi assolutamente ordinari come
quella dei “tergicristalli nella pioggia”, dal titolo di una poesia,
dove il verso di azione è declinato all’infinito proprio per rimarcare
quell’impermanenza:
Tergicristalli nella pioggia recidono
per poi nitida devolvere sublime tempesta
di nuovo padrona
su meccanico, alterno tempo
che mi scorre sul parabrezza
Oppure, ricorrono esperienze rigorosamente neutrali e
neutralizzate, naturalizzate nel lindore delle buone abitudini
piccolo-borghesi (“Ti desidero così, | dentro un tailleur spinato, | gonna al
ginocchio e collant…”; “Hai preferito un bigotto, codardo cane addestrato
| che ti
abbaiava festoso…”); le problematiche esistenziali sono rigorosamente ridotte
alla dimensione della cloaca: (“Di questo sperma | giunto nello spasmo | di una preghiera…”; “Scintille multicolori
| tornano al mio cielo: | spermatozoi
morenti | nell’ancestrale amplesso”).
Enrico Pietrangeli utilizza anche la strategia della
serializzazione: la poesia non può che replicare, all’infinito, con
variazioni o senza alcuna variazione, la medesima poesia ormai ridotta alla
a-significanza (vedi le 14 versioni della medesima composizione
titolata “Il Pazzo [Print re mix]”). Serializzazione dell’a-significante,
con quel tranquillo incipit, pacificato e pacificatore nel mercato globale delle
merci linguistiche della belligeranza universale: “È un lago fondo e chiaro”. È certo un
fatto: la poesia dei “nuovi autori” si trova così in una situazione
non invidiabile, nella situazione di un soldato che davanti a sé ha il campo
minato dell’assenza di uno “stile” e, dietro di sé, ha un territorio bombardato
che è stato lo “stile” del Novecento, ovvero la storia delle parentele e delle
cointeressenze tra la quantità di stilizzazione applicata ai linguaggi poetici e
gli interessi politico-letterari delle deputazioni letterarie. Una situazione
non invidiabile e non emendabile.
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Recensione |
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