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Del sognato

Appunti sulla «generazione perduta» degli anni dieci

Noi sappiamo che nell’epoca del declino delle «Grandi narrazioni» è avvenuta la moltiplicazione delle piccole narrazioni in una miriade di racconti miniaturizzati. La «Grande narrazione» si è risolta in una «Piccola narrazione», nella narrazione di piccoli mondi: il mondo dell’affettività privata, la rammemorazione del vissuto e la rivivibilità del «privato» nel presente «attualizzato». La modalità, il modus che nella poesia del pre-moderno aveva a che fare con il «soggetto trascendentale» è stata sostituita dalla pluralità dei soggetti empirici e dall’egoità dell’attualità. Se ancora in Hölderlin e in Leopardi soggetto trascendentale e soggetto empirico coincidevano, noi oggi possiamo prendere atto che abbiamo accertato con evidenza assoluta che il «soggetto puro», in altri termini, il «soggetto trascendentale» che aveva ancora «coscienza di sé», ha compiuto oggimai la sua traiettoria concettuale ed ha esaurito le sue potenzialità «narrative», lasciando il pensiero estetico alle prese con i problemi derivanti dall’eclisse del «soggetto».

Ormai non vi sono più che soggetti empirici: sul piano dell’etica questo significa il conflitto delle volontà (Nietzsche) e l’ideologizzazione della morale; sul piano dell’estetico ciò comporta che non vi è nient’altro che uomini empirici, l’uomo come soggetto scompare per diventare soggetto di scienza, soggetto del politico, soggetto della sfera artistica, soggetto del religioso, soggetto della divisione dei poteri e del lavoro all’interno dello Stato democratico. In una parola: soggetto della democrazia. Presto però si è scoperto che il soggetto democratico che scriveva poesie o che colorava le tele o che scriveva i romanzi del nostro tempo altri non era che un complemento ideologizzato del «globale», insomma, che il «locale» altri non era che il riflesso (feticizzato) del «globale» Così, nell’agone democratico, al conflitto degli impulsi mimetici della sfera artistica corrisponderebbe l’ideologizzazione inconsapevole dell’estetico. In una parola, il trionfo del soggetto empirico ha il suo portato e il suo sostrato nel fenomeno della de-fondamentalizzazione del soggetto (e la sua morte trascendentale) e nella disartizzazione dell’arte; cioè, l’esistenza non ha più il suo luogo «trascendentale» ma in compenso ha i suoi soggetti empirici con i loro luoghi empirici e perimetrabili moltiplicabili all’infinito. Di qui una certa patina di esistenzialismo che si avverte nella narrativa e nella poesia contemporanee.

E la poesia obbedisce supinamente a tale quadro di sproblematizzazione del «reale».

C’è da chiedersi come la poesia contemporanea possa replicare a tale contesto di sproblematizzazione del «reale»; c’è da chiedersi con che specie di «reale» l’arte moderna pensa di avere a che fare. A me pare che il libro di poesia di Raffaele Piazza abbia messo in campo un demoltiplicatore del «poetico», o meglio, un «riduttore» del poetico e che ciò sia il riflesso di quelle enormi forze motrici che hanno messo in campo un demoltiplicatore dell’estetico in tutti i campi e in tutti gli aspetti del «reale» tramite la diffusione dell’estetico dall’architettura e dal design alle pareti dell’anima (se così possiamo dire), nel privato e nella privacy demoltiplicata e manifesta alla piena luce dei neon alogeni.

Direi che con la demoltiplicazione del «soggetto» siamo giunti a ridosso del «nuovo» soggetto empirico, della ottimizzazione delle risorse umane nelle moderne economie a capitalizzazione del lavoro salariato.

Nella stragrande maggioranza dei romanzi e delle poesie contemporanee (anche di autori ritenuti del massimo rilievo!) appare evidente che i risultati di una tale demoltiplicazione non potevano essere diversi: il trionfo del minimalismo e della micrologia. L’ultimo libro di Milo De Angelis Quell’andarsene per il buio dei cortili (Milano, Mondadori 2010) ne è un esempio invulnerabile. Ma se il minimalismo (venato di un candido aproblematico e aproteico autologismo) è il portato di una potente vento di sproblematizzazione, ciò non toglie che vi sia anche chi opera, all’incontrario, per la via di una problematizzazione di ciò che la cultura della giustificazione aveva derubricato come irrilevante e minoritaria.

Nel mondo della democrazia del globale mediatizzato corrisponderebbe così la democrazia del minimalismo e dei soggetti empirici.

L’autologia è dunque l’involucro del soggetto empirico, il genere oggi prevalente nella narrativa e nella poesia, dove l’io si autocelebra sull’altare del «privato» opportunamente scisso e deturpato negli esiti più intelligenti in una galleria di situazioni e di maschere, in una liturgia con un linguaggio liturgico.

Nel libro di Raffaele Piazza Del sognato (2009) c’è il personaggio della ragazza Alessia fotografato e visto come in radiografia, in un acquario, tra il sogno e la veglia, tutta una gamma di rifrangenze del ricordo e del sogno: c’è il «rossetto di Alessia», Alessia «è nuda nell’estate nella macchina», «non vuole avere un bambino», «le mutandine di Alessia 1998» etc., tutto un repertorio e una fantasmagoria di temi e di spunti che Piazza sa trattare con grande esperienza. Uno stile emulsionato e gentile, frutto di tatto, di sapienza e di accortezza e di fugacità.

L’autologia di Raffaele Piazza (l’autore è nato nel 1963) è un libro «esemplare» ed emblematico della generazione che non ha mai saputo di essere una generazione, che ha avuto sì pessimi maestri, sì, e pessimi istrioni anche, una generazione alla quale nessuno mai ha consegnato il testimone della poesia critica di un Fortini e di un Angelo Maria Ripellino, della disperazione esistenziale di una Helle Busacca. In una parola, la generazione che è passata improvvisamente e nel breve volgere di tempo dalla società del benessere a quella della stagnazione è quella che è rimasta priva della generazione di riferimento. Così, è capitato che dopo la «generazione invisibile» (alla quale appartengo anch’io, Giuseppe Pedota, Giorgia Stecher, Maria Marchesi, Maria Rosaria Madonna, Roberto Bertoldo, Laura Canciani etc.), quella nata negli anni Sessanta e Settanta sia stata la «generazione inconsapevole», che si è perduta senza neanche sapere di esserlo…

A questa «generazione perduta», e a Raffaele Piazza in particolare, che è tra i più dotati della sua generazione, io mi sento di rivolgere un accorato monito: ritornare indietro alla problematizzazione di tutto ciò che la cultura egemone aveva sproblematizzato, fare marcia indietro, innestare una potente retromarcia, se si vuole in qualche modo incidere e lasciare una potente traccia ma all’incontrario. «Contropelo rispetto al mondo» come scriveva Mandel’stam nei lontani anni Dieci del Novecento. Ricominciare daccapo, ma dalla tradizione critica della poesia del tardo Novecento. Abbandonare la lezione del minimalismo e del micrologismo.

Vorrei segnalare in questa sede una poetessa della generazione precedente, che fa una poesia apparentemente avulsa dall’attualità e dal «privato», che non pesca nella «cronaca» e nel «quotidiano», insomma, che fa una poesia diversa, Lidia Are Caverni Colori d’alba (2010). Poesia placentale, immersa in uno stato amniotico, larvale, resurrezionale tenuta insieme all'imperfetto, un tempo che indica una sospensione memoriale e una sospensione spazio-temporale di motilità più che di moti, di inazioni più che di azioni configurate e scandite. Severo nella sua versione antimoderna il discorso poetico della Are Caverni è tutto inscritto nell'ombra della caverna platonica dove vigono e vivono presenze larvali ed essenze iperuraniche immerse in una zona di albedini umbratili refrattarie alla struttura della coscienza e della Storia, tese alla felicità compossibile e impossibile, ad uno stato di verginità impossibile come un'utopia. Poesia dell'utopia e del sogno, dunque, refrattaria all'ordinamento della punteggiatura e al discorso logico articolato secondo una sequenza di proposizioni collegate e subordinate; poesia orizzontale di dulcedini smaltate che reca in sé, nel risvolto ctonio e sorgivo, una estraneità totale al «mondo» e alle contaminazioni della Storia. In tal senso poesia catafratta come dentro ad una testuggine stilistica che si chiude nel proprio alveo, con un sentore di ferinità e di albedini.

Recensione
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