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Come è noto, nella metafisica heideggeriana il
pensiero oggettivante è quello che coincide con quell'epoca della storia
dell'essere in cui quest'ultimo si dà come «presenza». È questa l'epoca mitica
degli dèi e dei semi dèi: l'epica e l'epoca del mondo pagano. Quest'epoca è
caratterizzata dal fatto che l'essere si dà come forza: con il carattere
della permanenza, della finitezza, dell'evidenza. Con il divenire della
posizione del problema essere-tempo comincia la Verwindung della
metafisica: l'essere si dà ormai, come già annunciato nel nichilismo di Nietzsche,
come ciò che svanisce e che perisce; non come ciò che sta (fin da Sein und
Zeit), ma come ciò che nasce e muore.
La situazione attuale, di tramonto dell'arte, è
leggibile filosoficamente come aspetto di questo generale accadimento che è la
Verwindung della metafisica, di questo evento che concerne l'essere
stesso. La nozione heideggeriana della poesia come «messa in opera della verità»
concerne la esposizione (Aufstellung) di un mondo e produzione (Her-stellung)
della terra; nel senso che l'opera d'arte ha una funzione di fondazione, fonda
il limite e il confine di un mondo storico. Un discorso che va configurato nel
senso seguente: come e quando si verifica che la funzione estetica assume il
volto della organizzazione del consenso? Ha senso oggi parlare di «luoghi del
mito»? Sì, sembra dirci Roberto Mosi, i luoghi del mito risplendono soltanto
come frammenti e rovine della physis, della «terra»; in quanto intrisi di
terra e di dynamis, queste composizioni di Mosi vanno nella giusta
direzione, sono indicative di quel generale evento del tramonto che Heidegger ha
definito «ontologia del declino». Mi piace questo vagare nelle stanze dei miti
di Mosi, questo frangersi e infrangersi della parola poetica dinanzi alla
evidenza «cose». Dinanzi alla evidenza delle cose la poesia non può far altro
che ammutolire. Avviene così che quando Mosi si avvicina alla cronaca, la sua
poesia subisce una flessione, manca la parola il suo oggetto.
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Recensione |
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