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Prefazione a
Anamòrfosi
di Angela Greco
la
Scheda del
libro

Giorgio Linguaglossa
Ha scritto Umberto Eco: «Noi abbiamo invece la fondamentale esperienza di un
Limite di fronte al quale il nostro linguaggio sfuma nel silenzio: e l’esperienza della Morte.
Siccome mi avvicino al mondo sapendo che almeno un limite c’e, non posso che proseguire la mia interrogazione per vedere se, per caso, di limiti non ce ne siano altri ancora».
Il problema posto da Eco, quello del «Limite», coglie nel segno.
Non c’e solo il «Limite» della «Morte» ma anche il «Limite» del linguaggio. E dove e che il linguaggio mostra con maggiore evidenza il suo statuto di «limite»? La mia morte, la morte dell’ente uomo, equivale alla morte del mio linguaggio.
Il limite del mio linguaggio e la mia morte. Ma, al contempo, i linguaggi sopravvivono con gli altri esseri umani. E allora, dove si rende manifesta la presenza del «limite»?
Nell’arte e nella poesia, che adombrano (mai termine e stato piu adatto, nel senso che fanno ombra e ne sono l’ombra) il «Silenzio». ogni Lingua ha i propri confini nel «silenzio». Il mare magnum della lingua confina e sconfina nel «silenzio» e tutte le lingue messe insieme confinano e sconfinano nel «silenzio». Il «silenzio» e cio che sta al di la della lingua (e
al di qua) ed e lui l’attore che mette in moto la forza inerziale delle lingue. Il «silenzio», dunque, e il vero motore immobile che mette in azione tutte le lingue; ma questo silenzio noi lo avvertiamo e ne possiamo percepire la presenza soltanto per il mezzo della poesia e dell’arte suprema. In tal senso, ed entro questa problematica, io credo che dobbiamo porre la questione del «realismo». Il «realismo» sta dentro la lingua, utilizza le sue categorie logiche e filosofiche, ma la lingua, ogni lingua, muta, e immersa in un viaggio perenne, in un moto di traslazione; e sorretta da una forza inerziale, che ha dato il via alla traslazione delle lingue verso… verso il
silenzio dell’universo al termine del pianeta terra e di esso universo.
Ha scritto Maurizio Ferraris nel suo
Manifesto del nuovo realismo: «Non si puo
fare a meno del reale, del suo starci di fronte e non essere disponibile a negoziare.
Sia quello che sia, ci renda felici o infelici, e qualcosa che resiste e che
insiste, ora e sempre, come un fatto che non sopporta di essere ridotto a interpretazione, come un reale che non ha voglia di svaporare in reality.
La realtà e socialmente costruita e infinitamente manipolabile?
La verità e una nozione inutile? Il ‘nuovo realismo’ e anzitutto la presa d’atto di un cambio di stagione. L’esperienza storica dei populismi mediatici, delle guerre post 11 settembre e della recente crisi economica ha portato una
pesantissima smentita di due dogmi centrali del postmoderno: l’idea che la realtà sia socialmente costruita e infinitamente manipolabile e che la verità e l’oggettività siano nozioni
inutili.
Le necessità reali, le vite e le morti reali, che non sopportano di essere ridotte a interpretazioni, sono tornate a far valere i loro diritti».
Quello che ora e necessario e una nuova visione di cio che e il reale e di cio che la poesia vuole essere. E da qui che ha inizio il lavoro poetico di Angela Greco, il suo progetto di
ampliare la forma-poesia per creare una poesia nuova, moderna, dialogata e narrativa che sappia argomentare e presentare i suoi Personaggi, le sue Maschere. E sarà su questo punto che si disegnerà un nuovo spazio per la poesia del futuro.
Commentando la poesia di Czesław Miłosz
Ars poetica
del 1957, posta in epigrafe del libro, scrivevo sulle pagine
telematiche de L’Ombra delle
Parole Rivista Letteraria Internazionale: «Proviamo a ragionare intorno a ciò che vuole dirci il poeta polacco nella poesia sopra citata. Il momento espressivo-metaforico della forma-poesia e uno spazio espressivo integrale (che puo essere colto in un sistema concettuale
filosofico, che oggi non c’e per via della latitanza di pensiero estetico da parte dei filosofi). Il momento espressivo coincide con il linguaggio e il linguaggio e condizionato dai linguaggi che l’hanno preceduto… se il momento espressivo si erige come un qualcosa di più di esso, degenera in non-forma (si badi non parlo qui di informale in poesia come in pittura!), degenera in mera visione del mondo, cioè in politica, degenera in punto di vista condizionato dagli interessi di parte, in
chiacchiera, in opinione, in varianti dell’opinione, in sfoghi personali, in personalismi etc. (cose legittime, s’intende, ma che non appartengono alla poesia intesa come «forma» di un «evento»).
Il problema di fondo (filosofico ed estetico) della poesia della seconda meta del Novecento (che si prolunga per ignavia di pensiero in questo
post-Novecento
che e il nuovo secolo) e il non pensare che il problema di una «forma» non può essere disgiunto dal problema di uno «spazio» e che
quest’ultimo non può essere disgiunto, a sua volta, dal problema del «tempo» (tempus
regit actum, dicevano i giuristi
romani). ora, il digiuno di filosofia di cui si nutrono molti poeti, dico il problema di pensare questi tre concetti in correlazione reciproca, ha determinato, in Italia, una poesia scontatamente lineare unidirezionale (che segue pedissequamente e acriticamente il tempo della linearità metrica), cioè che
procede in una sola dimensione: quella della linea, della superficie… ne e derivata una poesia superficiaria e unidimensionale.
E, si badi, io dico e ripeto da sempre che il maggiore
responsabile di questa situazione di imballo della poesia italiana e stato il maggior poeta del Novecento: Eugenio Montale con Satura
(1971), seguito a ruota da Pasolini con
Trasumanar e organizzar
(1968). Ma queste cose io le ho gia spiegate nel mio studio
Dalla lirica al discorso poetico. Storia della poesia italiana 1945-2010
(EdiLet, Roma, 2011); in questa sede, posso solo indicare il punto di arrivo di questo lungo processo, ovvero il
minimalismo e il
post-minimalismo.
Con questa conclusione intendevo tracciare una linea di
riflessione che attraversa la poesia del secondo Novecento. Una linea di riflessione, che diventa una linea di demarcazione.
Delle due l’una: o si accetta la poesia unidirezionale del
postminimalismo magrelliano (legittima s’intende), che prosegue la linea di una poesia superficiaria e unidirezionale che ha
antichi antenati e antichi responsabili (parlo di responsabilità estetica); o si opta una linea di inversione di tendenza da una poesia superficiaria a una poesia tridimensionale e
argomentativa, che accetta di misurarsi con una «forma piu spaziosa», seguendo e traendo le conseguenze dalla impostazione che ha dato Czesław Miłosz al problema della poesia dell’avvenire.
La poesia citata di Miłosz e un vero e proprio manifesto per la poesia dell’avvenire e chi non comprende questo semplice nesso non potrà che continuare a fare poesia superficiaria (beninteso, legittimamente), cioè un tipo di poesia di cui
possiamo sinceramente
fare
a meno.
E dentro questa problematica che si situa questo lavoro poetico di Angela Greco. Il tentativo di creare un allestimento scenico per una poesia di ombre, di Maschere, di Personaggi, che discorrono e discutono mentre il tempo scorre e la forma si solidifica; una poesia, che varca la soglia della lirica per
avviarsi verso una nuova struttura sintattica e semantica.
Le nuove correnti «pseudo-realiste» — i romanzi biografati o le biografie romanzate, la lirica biografica, i romanzi finto storici, l’autobiografismo spinto agli eccessi sia in poesia che nel romanzo, il romanzo psicologico aggiustato sulla falsariga
delle storie filmiche — falliscono nel loro intento proprio perché vengono sedotte dall’immagine mediatica, perche vogliono essere «specchio» di quelle telenovele mediatiche, avendo un disperato bisogno di esibirsi. Tutto ciò, ovviamente, non appartiene alla ricerca di Angela
Greco,
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