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Un serrato dialogo vita-morte

Non avevo mai avuto la possibilità di leggere la poesia di Alfredo de Palchi, nonostante ne conoscessi la militanza attiva da molti decenni a New York e negli ultimi tempi con frequenti incursioni a Padova, a stretto contatto con quel dinamico operatore culturale che è Giampietro Tonon, deus ex machina del sito Literary.it e della Libraria Padovana Editrice. Infatti proprio coi tipi di quest’ultima è stata pubblicata la breve ma intensa plaquette dal titolo Contro la mia morte.

Già un titolo cosiffatto mette in guardia il lettore, nel senso che non troverà nei versi di de Palchi alcuna concessione al lirismo ipso facto, all’emozione fine a se stessa, ma diversamente si confronterà con una visione del mondo senza equivoci. Il poeta non concede nulla all’edulcorazione intimistica, né tampoco si concede alla denuncia solipsistica, ma tende a dilaniare il rapporto tra l’essere al mondo e la sua inarrestabile corsa verso la fine. Tutto è limitato, definito, lo spazio dell’uomo è contrassegnato da un passaggio, da una scansione temporale, mentre la morte è lì eternamente a sbeffeggiare, a irridere, consapevole della sua eternità.

E’ altamente presente nella raccolta una forza centrifuga che attanaglia il poeta, contrapponendolo in quell’urgenza di sconfiggere il male che preme attimo dopo attimo, bestia immonda, lercia, concime che tutto assorbe e allo stesso tempo distrugge. “Lacerami le membra, se vuoi, | non la mente già s-concentrata per obliare | il principio che tuttora si contrae | e si estrae esponendo il tremore | della concimaia che sei”. Parole inequivocabili, che non lasciano spazio a interpretazioni, tutto è classificato all’interno di quella scansione che viaggia all’interno delle viscere del poeta e della sua parola, fortemente lacerata e ugualmente distesa nella sua più espansiva energia creativa. Sembra, infatti, che questo dualismo rappresenti un po’ il fil rouge di questa poesia depalchiana, da un lato negativizzata dall’ossessione della morte, dall’altro corroborata da una forza disperata di combatterla, di contrapporsi alla sua immanenza. Tutto si dipana all’interno di questa matassa, che assume caratteri cangianti e differenti intuizioni, alle quali il poeta volentieri – alla fin fine – si abbandona, perché sente che anche nell’estrema ratio c’è il soffio della bellezza, del sogno che costruisce, di un futuro non impossibile. “Sei lercia sei l’orrore | eppure ti corteggio | ti vedo ti vesto di beltà lunare | ossessionata bionda spiga | rossa di labbra gonfie | o mora succulenta di more | infine in un triangolo verde”. Ed è – indubbiamente – un messaggio di speranza.

Recensione
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