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E’ risaputo quanto il bianco rappresenti il
colore per antonomasia, la sostanza di un rapporto equilibrato anche nella
composizione grafico-tipografica, ma assume la priorità di contenuto
nell’assemblaggio delle parole. Lo spazio che intercorre tra una parola e
l’altra ha la capacità di una comunicazione quanto mai precisa, nel senso che
determina l’equidistanza fra il concetto di prima e quello seguente. Ciò, di
contro, stabilisce l’enunciazione di un proprio modo di guardare la realtà, di
approcciarsi alle cose, in modo assolutamente autonomo, cioè liberi da qualsiasi
gabbia strutturale, sia essa di forme sia di contenuti.
Questi pensieri mi sono frullati nella mente mentre scorrevo le pagine di
Formazione del bianco del poeta napoletano Stelvio Di Spigno, e ho dovuto
lasciarli sedimentare prima di affrontare a viso scoperto i suoi versi. Quella
di Stelvio Di Spigno non è una poesia facile, che puoi prendere sottogamba, a
cuor leggero, ma pretende un’attenzione forte e vibrante soprattutto perché non
ama i ghirigori della parola effettuale. Il verso si prolunga nelle cavità della
vita e tenta di scoprirne i più segreti recessi, quando “l’anima forma i suoi
nitrati | e lo avverti, ma non la puoi toccare”, impalpabile necessità di un
vivere che entra e fuoriesce a suo piacimento negli interstizi dei giorni. Il
tracciato è ben delineato “Ho usato inchiostro bianco anche stanotte”, così il
poeta spoglia gli orpelli degli accadimenti, disarmato, ma irrobustito da un
recupero delle tensioni verbali e umane, le prime distribuite in livelli
strofici diversificati, qui e là sincopati, altrove dinamicamente declinati su
andamenti più prosastici. Lo spessore delle cose normalizza una condizione
rigorosa, che non offre definizioni precostituite, perché il tutto si svolge e
si avvolge attraverso un processo instabile, proprio com’è la realtà che viviamo
ogni giorno. Una condizione di povertà la nostra, pervasa da seduzioni e
inganni, angosce e sgomenti, che germinano agli angoli della vita come fiori
sporchi di letame. “Mentre io vorrei | appartenere solamente a voi | attraverso
lo schermo | di un attimo corale; | e in giorni idratati di pioggia e delusione
| darci un pane qualsiasi | per una qualsiasi fame: darci un nome | un volto: e
non letame. | E anche la mia mano”. E’ l’insufficienza di un tempo vissuto e
rincorso come una corsa ad ostacoli, dove il fantino (il poeta) s’attacca
disperatamente alla sella per paura di essere disarcionato da un momento
all’altro, permettendo così al “nero” di isolare la verginità di quel “bianco”
anelato. Che è un po’ l’ambizione di tutti noi.
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Recensione |
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