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A
distanza di un anno dall'excursus storico-giuridico sulla singolare città-stato
di Ragusa (Né Turchi né Ebrei ma Nobili Ragusei, edizioni della Laguna,
2004 ), Cristiano Caracci licenzia la sua prima prova narrativa con un originale
affresco sulla piccola grande repubblica marinara adriatica, affidando il suo
impegno per i tipi di una casa editrice trevigiana, di raffinata qualità, qual
è, appunto, l'Editrice Santi Quaranta fondata dallo scrittore Ferruccio
Mazzariol. La luce di Ragusa si distanzia dalla moltitudine dei romanzi
in circolazione, per una ragione che è poi il suo aspetto più sorprendente: la
capacità di una scrittura alta, colta, senza mai abbandonarsi alla retorica o
all'accademismo. Il suo linguaggio corre spedito alla meta, non inciampa nei
ghirigori nel descrittivismo fine a se stesso, dal momento che predilige
l'asciuttezza concreta, ma allo stesso tempo turgida di emozioni.
Il romanzo s'impone, tra l'altro, per la sua struttura circolare, cioè
l'autore non si ferma a contemplare, a minuziare luoghi o personaggi, ma
s'affida alla libera escursione favorendo ed innestando così una molteplicità di
situazioni sempre diverse, nonostante la matrice sia unica.
A voler semplificare potremmo dire che ai margini si sviluppa una specie di
"giornale di bordo", un "diario"che al suo interno contempla le vicende di più
generazioni che vivono nella malinconia della luce straordinaria della città
d'origine, alla quale si sentono vicini, anche quando la vita impone loro rotte
inusuali. Parallelo si snoda, altresì, un percorso di empatie, a livelli
multipli, che si intreccia in un tutt'uno alla storia di Ragusa, una città di
cui il Caracci si fa rapsodo innamorato e sensibile.
E' evidente che Caracci riesce a catturare, attraverso una scrittura limpida
e forbita, l'anima dei luoghi ragusei, dove colloca e fa vivere i suoi eroi,
pieni d'umanità, perciò anti-eroi, nel senso che essi non compiono gesta o
imprese di titanico spessore, ma rappresentano la unicità di un mondo che si
trova a combattere, a gioire, a soffrire, ad amare, proprio come accade a tutti
noi. Essi finiscono, nonostante ciò, con l'essere archetipi di un mondo e di una
cultura, con la capacità di sapersi ritagliare un proprio spazio di autonomia,
fatto di piccole verità e di minimi vantaggi.
C'è, inoltre, da dire che tutte le pagine sono attraversate e pervase da un
senso di nostalgia prepotente, che se per un verso rallentano la conoscenza,
dall'altro innescano un processo di suggerimenti ricchi di nuovi approdi. Così
dal primo capitolo all'ultimo, questi anti-eroi avranno il potere di raccontare
e di raccontarsi, di proiettarsi nei luoghi amati-odiati , per conoscerne le
verità intime e spesso sconosciute alle "storie" ufficiali, ma soprattutto di
avvicinarsi sempre di più alla propria condizione di uomini, fatti da carne e di
sangue.
Il racconto, tenuto sempre in prima persona, con un io referente, si dipana
senza intoppi, liberamente articolato e severamente controllato. Che è poi una
qualità rara in tempi come i nostri, che amano indulgere più alla sciatteria
linguistica e contenutistica. E fosse solo per questo, noi ci auguriamo che
Caracci si senta stimolato a darci in futuro altre prove, belle e pulite, come
questa splendida "luce di Ragusa".
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Recensione |
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