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La poetica di Ljuba Merlina Bortolani si discosta nettamente dalla profluvie di testi correnti, innestandosi nella migliore tradizione-innovazione della produzione in versi, ancor più se si tiene in conto la sua giovane età. Non ancora trentenne, laureata in Lettere classiche all’Università di Bologna e in Lingue e culture del Vicino e Medio Oriente all’Università di Pisa, ha già pubblicato due raccolte di poesie, ed ora si attesta con questa L’arte del bersaglio in una posizione davvero unica ed unitaria.

Dall’insieme della plaquette s’indovina di un più grande e complesso progetto poetico, ma il passo è davvero emblematico, a tratti corrosivo e corrodente, sognante ed onirico, preziosamente vigile sulla realtà e allo stesso tempo ai confini dell’irrealtà, una sorta di sospensione a-temporale che si dirama nell’attraversamento di paesaggi naturalistici o immaginifici. L’incipit, sostenuto “Ho conosciuto uomini primari | che mi dicevano che ero inconquistata”, si avviluppa nella “insonne esposizione delle voci”, pensando che era “lì che avrei dovuto amoreggiare | con la domanda antica della gioia…”. Il dialogo-confronto con l’Uomo, l’Altro, ha cadenze costanti, ferimenti, soprassalti, che denunciano la problematicità dell’Essere, in una ricerca estenuata ed estenuante per “mari boreali”, “cattedrali”, “nell’ombroso bosco”, prolungandosi nel viaggio per terre ignote “ti ho ritrovato nelle carovane”. Un cammino che si colora di profumi e di odori, di essenze e di assenze, tutto sotto la bandiera della provvisorietà, dell’inconoscibile che aggredisce l’attimo e fa sprofondare le certezze, in una formulazione lievitante di riferimenti e di occasioni.

La poetessa insegue una dimensione di scrittura autonoma avvertendo l’intensità dei rapporti, l’egemonia delle immagini formulate in una energia travolgente, magmatica, simile a quella dell’esplosione di vita quando “il vento insospettato a primavera | che libera i capelli ed il sorriso”. L’altalena di immagini avvince il pronunciamento che si dibatte fra “tempeste” e “innocenze”, mentre trova un nuovo campo di estensione nel “soffice sospetto delle ciglia | fino all’abisso delle mie sembianze”, e nel turbinio delle pressioni alfine l’anima reclama “Lascia ch’io sia la pèsca e l’invenzione | – pace di fondo e pace di conquista –“. La necessità di ricondurre il Tutto ad un bisogno oltre, laddove insiste la dimensione di un Universo al quale attingere a piene mani.

Recensione
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