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Questo libro del molfettese Marco I. De
Santis, poeta, critico letterario, storico delle tradizioni popolari, ha il suo
“prologo” e il suo “epilogo” nel titolo che l’autore che l’Autore ha voluto
assegnarli: Lettere dagli Argonauti. De Santis è un componente della
flotta di “navigatori che parteciparono, con Giasone, alla conquista del vello
d’oro imbarcandosi sulla nave Argo”, dove i navigatori sono i “poeti”, compagni
di viaggio, per la conquista della corona d’alloro da adornare il capo, come
nella sublimata effigie riservata agli Incoronati dal bacio della Poesia.
Infatti, la sezione, peraltro la più corposa, da cui prende il titolo l’intera
raccolta, è un ponte lanciato agli amici poeti: Giancane, Mraovic, Simone, e
tutta la compagnia di coloro che amano sporcarsi le mani con l’olio santo
dell’ispirazione, della creatività. Tutto si snoda nell’alveo di uno scatto
rincorso, accarezzato, che si avvale e si fortifica attraverso una parola
“colta”, quasi a disprezzo o diniego del linguaggio immediato, di presa diretta.
I versi desantiani si snodano in un reticolo di affascinanti metafore,
simbologie pregne di lemmi ridondanti, situazioni quasi estranee ai valori della
quotidianità, in un gioco allusivo ai limiti dell’invisibile. Questa realtà
rispecchia totalmente la visione precipua che De Santis ha della poesia e del
suo status intellettivo-emozionale, quando ribadisce nelle interviste poste in
appendice al libro, rispondendo alle domande di Piero Giannini, quando rivendica
alla sua poesia una concezione “aristocratica”. Dice De Santis: «Aristocratica, perché non sempre è alla portata di tutti, specialmente quando
deve superare la mediocrità con la deviazione della norma… Democratica, perché
deve cercare di aprirsi a tutti, di universalizzarsi, pur mantenendosi in forme
originali…». E dilata questo concetto nell’altra intervista a cura di Daniele
Giancane. Dice ancora De Santis: «Per la gente comune ci sono le
canzonette…Invece la poesia – soprattutto quella ad elevato tasso di
letterarietà – è tendenzialmente aristocratica. Anche la mia lo è… ma si apre
anche a forme musicali e colloquiali, e non di rado alla limpidezza stilistica,
spie di una tendenza che grossolanamente può definirsi ‘democratica’». Ecco,
con un plafond di questa struttura, non è difficile catalogare la poesia di De
Santis nella categoria “alta”, cioè di una poesia costruita su un linguaggio
estremamente ricercato e spesso inusuale, ai confini dell’arcaicità. A mo’ di
esemplificazione, citiamo qualcosa: “delirio strabiliare”; “elisio inatteso di
bellezza”; “nel tananai assordante del mondo”; “gemono nei capienti”; “nei
crateri dei puli”; “ ritmo carcadiano”; “logofanìa che desta al creato”;
“guardare anamorfico”; “alla fine l’etisìa”; “un segnale tàntrico”. Un
campionario che da solo classifica la ricerca di De Santis e la sottrae, per
converso, alla codificazione di un lirismo “povero”, anche se non mancano – come
da lui stesso ribadito – forme colloquiali di profonda intensità e di chiara
fruibilità. Sono, questi, i momenti nei quali De Santis è capace di avviare un
percorso altro, dove confluiscono sentimenti ed emozioni, narrati
mediante un linguaggio fluido e allo stesso tempo accattivante. «Tenero è il
verde dell’avena | e rosaviola il nugolo di malva | dove tu cammini venendomi
incontro | con un riso soave» (Nei campi, p. 49), e ancora: «Allora so
che verrai | con passo felpato e sicuro, | brezza di velluto | che la mente
blandisce.| Allora so che verrai | con i sogni più alati | e l’abisso
dell’inferno svanirà» (Sarò qui, p. 51). «Abbracciami, col caldo del
tuo corpo, | e sciogli la nebbia fredda del distacco | con petali di fuoco e di
luce | e una ghirlanda di sogni | per sempre» (Rimorso, p. 7).
Lettera dagli argonauti
è poema immaginoso e denso, percorso da una lingua raffinata e piana, intrisa di
tutti i succhi di una cultura “classica”, costruita su travi solide e
rappresenta un esempio totale di come sia possibile non arrendersi al piatto
sdolcinamento tardo-intimistico di cui è pervasa ancora molta poesia
contemporanea. La verità sta nella bellezza di saper fondere “conoscenza” e
“sentimento”, senza ostracismi dall’una o dall’altra parte, e Marco I. De Santis
è riuscito nel suo intento, proprio con questa emblematica silloge di poesie.
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Recensione |
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