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Una poesia che non divaga e non si distrae in inutili acrobazie stilistiche

Che sia sempre la poesia ad offrirci qualche barlume di speranza è un dato più che confortante in un mondo costruito sulla indifferenza e sulla massificazione culturale; ed è il primo segnale costruttivo trovato nel volume “poesie” di Claudio Damiani (nato a San Giovanni Rotondo nel 1957 ma vive a Roma dall’infanzia), pubblicato in raffinata veste grafica dall’editore Fazi a cura e con prefazione di Marco Lodoli. Dico che ad onta di ogni spregiudicata enunciazione in merito alla qualità e capacità di scrivere versi, di cui si piccano avere il primato unicamente quelli che praticano la scrittura sperimentale o nei confini, venire a contatto con un linguaggio che si nutre alle fonti della classicità, può rappresentare davvero l’unica novità in un panorama che si affanna nella ricerca del “nuovo a tutti i costi”.

Confesso che non conoscevo la poesia di Damiani fino a qualche settimana fa, quando sulle colonne del Corriere della Sera ho letto la recensione dedicata a queste “poesie”, che, in sintesi, raggruppa l’intera produzione (Fraturno, 1987; La mia casa, 1994; La miniera, 1997; Eroi, 2000; Attorno al fuoco, 2006; Sognando Li Po, 2008), con l’aggiunta dell’inedito Il fico sulla fortezza.

Vent’anni e più per una mezza dozzina di titoli sono a testimoniare il lavorio costante e incessante che Damiani ha operato nel tempo per dare corpo ad una poesia che non fallisse difronte all’usura del tempo stesso.

Balza subito agli occhi la nudità di una parola ineludibile, scabra di aggettivazioni superflue, e consegnata piuttosto ad un registro timbrico asciutto ma sostanziale. Ogni verso, tutti i versi, si sommano nella fluidità di una narrazione, di un racconto che si allarga all’infinito, un Oltre che è il substrato di una conoscenza non peregrina ma fatta di lacerante dolore.

Con profondità Marco Lodoli coglie, nel suo excursus introduttivo, calandoci, tra l’altro, nella temperie culturale dalla quale proviene l’Autore (l’esperienza delle riviste “Braci” e “Prato pagano”, ma soprattutto la militanza con Beppe Salvia, morto suicida nel 1985), quando, senza perifrasi alcuna, scrive che quella di Damiani «E’ una poesia grandissima perché va al cuore del problema là dove la vita e la morte si guardano negli occhi e si riconoscono come parti del tutto».

Lo sviluppo poematico di ogni raccolta indica quanto Damiani abbia coltivato ed amato i “classici” (preziosa la sua versione di alcuni testi di Orazio), con l’avvedutezza e la sapienza del tempo in cui si trova a vivere ma non dimentico del passato, degli insegnamenti che esso può averci tramandato con la sua lezione austera e rigorosa. Siamo lontani mille miglia dai cerebralismi celebrativi di tanta letteratura d’oggi, perché la poesia di Damiani vive da sola, aldilà degli orpelli culturali, dal momento che cammina tra la gente e con essa instaura un dialogo sincero.

La misura più congeniale al suo bisogno di raccontare, di proporsi quale via da seguire e da praticare, è rintracciabile in una scelta di poetica, che è la somma di un “dire” essenzializzato nel respiro lirico. Una scelta di campo che negli anni, volume dopo volume, si è rivelata decisiva perché la poesia di Damiani si conquistasse una sua collocazione precisa nell’agone della letteratura contemporanea, proprio in virtù del suo andare “controcorrente” alle mode del correntismo poetante.

Ed è vero quello che scrive Ida Bozzi sul Corsera quando parla di una poesia «naturale e rigorosa insieme, con i suoi echi di classicità antica, con metrica e lingua solo all’apparenza piane e semplici», perché è proprio in quegli aspetti a prima vista in palese antitesi, che la parola si stempera in una dimensione-evoluzione di alta tensione umana e culturale.

E mi piace chiudere queste scarne notazioni sulla poesia di Damiani, citando i versi dell’ultima poesia del libro, i quali più di ogni discorso critico ed esegetico, ci dicono della pienezza del suo verseggiare. «Allora dico: non ci immaginiamo cose tanto strane | ma guardiamo quello che ci sta vicino, | lasciamoci ferire dalla sua bellezza | e nella sua sapienza riposiamo il cuore.».

Recensione
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