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Devo confessare subito la sensazione che mi
ha colpito sfogliando l’antologia poetica di Giovanni Chiellino Tela di
parole: sono rimasto interdetto difronte all’immensa mole di testi
accumulatasi negli anni e che ora trovano dimora appunto in questo densissimo
volume, per pagine e per contenuti. Naturalmente è difficile addentrarsi
analiticamente nei vari momenti chielliniani, seppure non manchino le
sollecitazioni a farlo, soprattutto per testimoniare quanta fedeltà l’autore ha
mantenuto e radicato nello snocciolarsi dei decenni. E’ un incitamento alle
ragioni della poesia e della sua verità assoluta, alla sua genesi e alle sue
finalità, perché Giovanni Chiellino ha impegnato tutta la sua vita a renderci
partecipi di un messaggio che sovrasta l’effimero, per traguardarsi
nell’altrove. Quell’altrove che si individua nella sua spasmodica ricerca di
parola, in un continuo addensarsi di emozioni, che si strutturano pacificamente
nell’alveo della migliore tradizione letteraria del Novecento italiano.
Una precisazione è d’obbligo ed è quella
che Giovanni Chiellino ha iniziato a pubblicare molto tardi, infatti aveva
cinquantuno anni quando uscì, nel 1988, Galateo per enigmi, anfitrione
editoriale sempre la Genesi di Torino, e mi ricorda tanto l’avventura tardiva
del tarantino Michele Pierri, medico e poeta come Chiellino. Che strane
co/incidenze ci mette davanti la vita, napoletano d’origine Pierri ma vissuto
sulle sponde della città dei Due Mari, mentre Chiellino nasce a Carlopoli, in
provincia di Catanzaro, ma ormai piemontese a tutti gli effetti.
Chiusa questa parentesi bibliografica, ad un esame, sia pure compresso e
costretto dallo spazio connaturato ad una nota recensoria, l’antologia di
Giovanni Chiellino si propone come un interrotto dialogo attraverso il quale il
poeta ritaglia sì un proprio mondo, quella “tela di parole” così grumosa di
metafore, di simboli, di rimandi mitologici, di assonanze con quel bagaglio di
cultura alta che è propria di chi non si è stancato mai di ricercare, di
viaggiare, di approfondire, senza, allo stesso tempo, rifiutare la lezione
indissolubile e più ambita del classicismo poetico. In effetti, Chiellino è
poeta che sa districarsi benissimo nella selva delle parole, intessendo, come
gli antichi artigiani, un patrimonio di bellezza e di spiritualità uniche, e
proiettato a rintracciare i segnali di un rinnovamento non soltanto formale o
formalistico, ma aderente alla necessità del proprio dire, della propria
esultanza di esprimere le fonti della vita. Chiellino articola così un mosaico
di interessi ad ampio spettro, avvolgendo le fila di una epifania poetica che
non conosce balbettamenti, smarrimenti, o peggio simpatie pruriginose nei
confronti delle cosiddette innovazioni linguistiche di struttura sperimentale;
la sua ricerca è invece affidata ad individuare le corrispondenze di un humus
interiore costruito sulle autenticità delle emozioni, sulla verità dei
sentimenti, sulla capacità e qualità di affermare il cammino di una storia
individuale ma nel contempo collettiva. Nel suo percorso, Chiellino individua
alcune coordinate precise e indissolubili, alle quali affida la sua parola
costantemente in viaggio tra memoria del passato e urgenza del presente, tra
l’impellente richiamo del nostos primordiale, quelle origini mediterranee
che poi confluiscono nella individuazione del “mito” e della “epicità”. Ma tutto
ciò si sviluppa e matura nell’ambito di una indifferibile costruzione semantica,
ritmata nella sua evocaticità più emblematica e declamatoria, nella sua estrema
necessità di levigatezza della pronuncia, pulita da ogni ridondanza e da ogni
orpello che possa inquinare la purezza del dettato.
Dal
punto di vista della individuazione filologica, ci troviamo difronte ad una
materia incandescente, ma quel che ci preme è sottolineare e indirizzare
l’obiettivo in quella dimensione altra, che Chiellino approfondisce
mettendo a fuoco tutte le povertà della condizione dell’uomo e del suo anelito
verso l’Assoluto. Ci sono pagine dense e altamente indicative delle relazioni
che Chiellino stabilisce nei confronti di Dio o delle ragioni che a lui ci
legano o ci respingono, con una analisi estrema che passa dal disagio nichilista
all’ invocazione-preghiera, quindi verso una scrittura evolutiva, come afferma
nella sua dottissima introduzione Sandro Gros-Pietro, “Il testo diviene un
‘perenne germoglio’, una continua mutazione del corpo testuale – si era anche
detto, nelle pagine precedenti che il testo è una rete e un intreccio – sotteso
ai due fuochi di una scrittura ellittica, avente due punti di scaturigine, la
natura e l’uomo, e una composizione indeterminata e infinita di soluzioni di
equidistanza dai due punti dati”. Qui il discorso diventa più complesso, dal
momento che avvia un processo escatologico all’interno dei due poli, la natura e
l’uomo nella loro dualità di convivenza possibile/impossibile a seconda dei
casi, che è, poi, la centralità dell’esistenza medesima. Chiellino mette a nudo
tutta la sua capacità di affondo, nel senso che costruisce un labirinto di
rimandi sottili e allo stesso tempo profondi, da cui estrae quella materia
incandescente che circuisce l’intera trama della Parola-Vita. La poesia si
interseca nel rapporto individuale costruendo una terra di memorie, di
suggestioni, che nel loro ricongiungersi si rappresentano e diventano metafora
del divenire eterno. Un aspetto peculiare della poesia di Chiellino è la
rappresentazione dei luoghi, degli affetti a lui più cari, per cui la
definizione delle cose assume contorni espliciti ed esplicativi di un interesse
soprasensoriale, carico della sostanza più alta : la sua illuminata realtà di
uomo e di poeta. L’uno e l’altro elemento si fondono perfettamente, dando
origine a quel “progetto di scrittura per rendere più forte la memoria del mondo
e per rendere più ricca l’avventura della parola” (Sandro Gros-Pietro), che è, o
dovrebbe essere, la meta più ambita per chi si misura ogni giorno con
l’inquietudine della parola poetica. E Giovanni Chiellino questo lo sa, ma
soprattutto ce lo testimonia a chiare lettere con questa sua infinita “tela di
parole”.
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Recensione |
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