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Nota introduttiva a
Divieto di sosta
di Enzo Schiavi
Davide Lajolo

Questo romanzo di Schiavi ha una
particolarità sugli scritti dei giovani che
affrontano la letteratura con
cipiglio moderno: è un racconto effettivo, con intreccio, vicende, personaggi e
cose da dire. Non è fatto di indovinelli di parole, di rarefatti silenzi e
immagini disperse in un linguaggio che si spaccia per avanguardia soltanto
perché di difficile comprensione e struttura.
Direi che Schiavi si è consumato
prima di iniziare la sua prosa sui grandi romanzi dei classici. Se davanti alla
prosa di un giovane si cita Alessandro Manzoni non si sa bene se gli si vuol
fare un torto, classificarlo tra i passatisti o partire dal più importante
narratore non soltanto tra gli italiani, per dire che questo giovane scrittore,
in questo caso Schiavi, è tornato alla fonte per bere tutto il limpido
dell’acqua di cui è capace. Soltanto per questa esemplificazione ho accennato a
“I Promessi Sposi” ed è anche per questa superba modestia così rara in questi
tempi che ho accettato di presentare queste pagine.
Un’altra caratteristica di
Schiavi: prende per mano i suoi personaggi, li analizza, li seziona anche
interiormente a rischio di presentare al lettore pagine che possano rasentare la
noia purché in loro e nelle loro vicende vi sia la vita, il quotidiano procedere
come quei sentimenti, quei pensieri che sono l’arcano che sta in noi e dà in
sostanza la spiegazione delle azioni e dei fatti. Altro specifico motivo del
romanzo di Schiavi è quello di fare nascere non solo ogni vicenda ma anche ogni
parola dalle vene della sua terra. A differenza di chi si inventa luoghi, cose,
protagonisti quasi li volesse trarre da un limbo come scoperta del misterioso,
Schiavi attraversa il territorio in cui è vissuto, i suoi paesi e la gente che
intona ogni pagina, ogni accadimento, è la stessa con la quale è vissuto, che
conosce nei gesti, nel respiro. Naturalmente l’una cosa e l’altra rende più
periglioso il suo lavorare. C’è sempre il pericolo dell’emotività, di non
riuscire a trovare quel necessario distacco da persone e cose per raccontare
senza l’assillo di agire e fare agire Angelo e Tilde, Teresa e Aldo tenendoli
fin troppo per mano o lasciandosi guidare da loro senza fare spazio a quel
reale-fantastico che rispecchia la vita vera degli uomini.
Eppure in queste pagine, ad onta
dei pericoli che ho accennato e che Schiavi ha scientemente accettati, c’è quel
senso della terra alessandrina, i caratteri della sua gente, la finta
disaffezione spinta fino all’ironia e quell’autentico calore umano senza dei
quali si racconta di robot e non di persone che attraverso momenti di
incertezze, di spasimi e di quotidianità, la più banale e la più vera nella vita
di tutti, si alzano, si abbattono, riprendono a camminare, si scontrano, sognano
e tenendo i piedi per terra riescono anche ad attraversare desideri
sproporzionati e sogni proibiti.
Quando si scatena la tragedia –
così ricorrente nei nostri paesi – quando Tilde viene uccisa dal figlio forse
Schiavi, mentre pare arrancare nelle difficoltà come accade sempre quando la
retorica, il suono delle parole, il ritmo degli avvenimenti ti incalza, in
realtà riesce a continuare a raccontare pianamente perché ha capito che anche la
fatalità abita di casa tra gli uomini e da qui ne consegue la rassegnazione e il
continuo dipanarsi della vita.
Il salto a Milano se ha del
forzato (la città ha sempre un fiato difficile da respirare), il ritorno alla
terra, alle piante, persino all’aggirarsi tra le groppe delle Langhe, riporta il
racconto ai suoi toni e all’animo dei suoi personaggi.
Schiavi,
inciampando, rialzandosi, talvolta abusando della facilità e della voglia di
raccontare, è riuscito a costruire una storia che regge, aprire la scena su
vicende che conosce anche nel particolare oltre che nel volgere degli anni,
chiedendosi costantemente attraverso i protagonisti verso dove, con quali dubbi,
con quali misteriosi tremori si avvia l’umanità. | |
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