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Dopo le tre precedenti raccolte (Asfodeli, La luna e la memoria, Ombra della sera) pubblicate rispettivamente nel 1998, nel 2000 e nel 2002, Giorgina Busca Gernetti si ripresenta ai suoi lettori con una nuova raccolta di poesie intitolata Parole d'ombraluce, che costituisce, sotto il profilo sia tematico che formale, come scrive Gianni Solari nella post-fazione del volume, una sorta di summa della sua precedente produzione.

Il libro è diviso in sette sezioni. Nella prima, intitolata “Aegritudines”, la poetessa si interroga sul senso della propria vita, in un momento in cui percepisce l'assenza di ogni riferimento, tanto da sentirsi priva di una meta plausibile. Una sensazione che si accresce nella misura in cui subentra la consapevolezza dei torbidi sentimenti che circondano la propria anima destinata ad un “doloroso esili” dalla vera “patria irraggiungibile”. Intorno c'è “buio, ancora buio”, un buio fitto che impedisce ogni accenno, pur vago, di luce; ed allora il senso di inutilità sembra dominare su tutto, rendendo più probabile il precipizio nell'abisso. Il tempo passa, la vita sfugge e anche le più semplici, ma importanti certezze si vanificano, si perdono in un atroce oblio.

“In un tempo lontano mi pareva
di conoscere il mio volto interiore.
Credevo di sapere
chi fosse quell’amata triste effigie
manifesta per gli occhi trasparenti;
chi quella fioca immagine riflessa
dallo specchio dell’anima.” (pag.34)

Ma ora l'autrice si accorge di non conoscere più se stessa, di essere finita in una sorta di limbo dal quale anche la luna pare non sorridere più e mostrare “una smorfia di pena”.

Tutto cambia nella seconda sezione in cui la luce della Calabria improvvisamente illumina il suo animo che, finalmente, ritrova l'armonia con se stesso e con la natura. Qui lo scorrere del giorno assume un significato diverso, non c'è un inutile, pesante cadenzare di ore, ma tutto è segnato dall'incanto di una natura trasbordante, difforme nei suoi colori, ma sempre serena, appagante, riconciliante. E se “il cielo bianco d'alba s'infiamma sul mare ancor cupo”, mentre “nell'aria pura divampa l'incendio dell'Aurora dalle dita di rosa” (p. 42), il tramonto non è una fine ineluttabile, ma è una musica serena con altri colori, altri suoni, ugualmente appaganti.

“Lo sciabordìo dell’onda bruna
che lenta si sgonfia
nell’alta marea
ed avida s’avventa
fin sugli scogli più aguzzi,
ricama una candida trina
sull’umida rena,
ormai fredda e nera
nell’ombra.” (pag.43)

Più avanti sono ancora i colori, o la gioiosa danza dei gabbiani, che con i loro squittii non interrompono l'estasi della poetessa, ma la dilatano fino a liberarla dalla “triste veste umana” che “si disperde lenta nell'inseguirsi delle onde flessuose”, per divenire parte totalmente integrante del mare.

La tregua dell'anima si interrompe nella terza sezione, intitolata “Il tempo, la memoria, la poesia”, dove l'alternarsi delle stagioni non incide sulla sua condizione esistenziale che tende a sprofondare in un autunno definitivo nel quale, “spente le promesse, svanite le speranze come un sogno, restano solo gli echi di memoria”. (p. 64)

E neanche il ritorno agli antichi lidi ridona la fiducia dell'avvenire, giacché

“la campagna è più scialba e forse spoglia.
Si son spente le lucciole,
lievi creature della notte, spenti
i miei sogni infantili.” (p. 66)

Poi la memoria si colora in lei di profonda mestizia nel ricordo di coloro che sono scomparsi, anche se in uno slancio di vitalistico entusiasmo, afferma che la morte non può annullare né il ricordo, né ancor meno la forza straordinaria delle parole.

“Se le parole mie giungono all'animo
d’un solo uomo e destano emozione,
forse non morirò del tutto anch'io.
Da una morte apparente, dal silenzio
si desterà il mio spirito; la voce
echeggerà, fiorendo sulle pagine.” (p. 78)

Tuttavia, la sua poesia non è solo esplosione dell'inquietudine del proprio Io chiuso nell'egocentrico mondo individuale, ma tende ad espandersi in un universo sempre più palpabile grazie alle immagini quotidiane che i media riescono rapidamente a diffondere. Per cui ella non può rimanere insensibile di fronte a quanto avviene a Baghdad, a Nassiriya, o alla tragedia della scuola di Beslan o alla forza distruttiva dello Tsunami, né ignorare il significato evocativo delle giornate della memoria dedicate alle vittime della shoah o delle foibe. Sono pagine sospinte da una forte umanità, ma anche da una socchiusa, indomabile rabbia per la sadica vittoria del male.

La quinta sezione della raccolta, intitolata “Epicedio per mia madre” si riconduce, come scrive Gianni Solari, “a un attento controllo della parola e del ritmo, [ ... ] un tenero omaggio filiale, ma altresì un tentativo di tradurre in canto quel mondo affettivo e sentimentale che vede nell'infanzia l'unico momento felice della vita.” (p. 156)

Nella penultima sezione, intitolata “Luci ed ombre della natura”, l'animo di Giorgina Busca Gernetti sembra ammorbidirsi lungo i sentieri di cammino, nel quale la memoria stempera i suoi eccessi tenebrosi in un turbinio di immagini che seguono, lente, lo scorrere delle stagioni, portatrici di un fascino ammaliante.

Allo stesso modo, nella sezione conclusiva del volume “Amores”, presente e passato si alternano celebrando la magia dell’amore che, anche quando sembra morto, risorge impavido dagli anfratti dimentichi dell’anima, celebrando la vittoria del bene.
Recensione
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