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Trascegliendo, non si
rinunci a segnalare quegli autori che, alla fin del millennio, mostrino almeno
di operare in controtendenza es rimendosi contro lo "stato di cose presente".
Come Veniero Scarselli, i cui versi (Il Palazzo del Grande Tritacarne, col sottotitolo
Vademecum del perfetto morituro), pure nella stretta
d'una jacoponesca e allucinata visceralità, connotata dall'orrore estenuato per
la materia vista come sentina d'ogni male, hanno i fosforici lampi della vera
poesia. Epopea del male fisico, mortificazione sadica e gloriosa del corpo,
affabulazione della deformità, agiografia dell'infimo e fervida ordalia è il
poema cosmogonico scarselliano: accordato in strofe d'ampio respiro, nelle
scansioni d'un crudo disfacimento dove la Morte identificata con la stessa
Natura è «un Medico impietoso e senza macchia» dedito, all'eutanasia. Tecnico
del pathos come l'ape del miele, conscio che non c'è nozione di nessun dramma
fuori della parola, il poeta parla con lingua rabbiosa e venefica, scevra di
chiacchiericci elegiaci e perfettamente empatica nei confronti della sua
terribile visione del mondo. Visione sprezzante per la quale la poesia, ma la
piú espressivamente tragica e dura, si fa esperienza sostanziata da nostalgie
d'assoluto senza speranza né fede. Poeta dell'estremo, diversamente dai poeti
neo-orfici più in voga, l'autore non si concede chimere o evasioni; ma
solo incubi: quelli d'una cognizione manichea della verità ove ogni singola
parola è accesa d'originaria e atroce consapevolezza.
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Recensione |
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