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In allusiva dialettica con la
stabilizzata forma mentis della poesia come scrittura o codice
autonomo, sono votati alla performance scenica i versi di Liliana Ugolini
costantemente pervasi da una volontà di relazione sociale – di comunicazione o
‘conversazione’ – che li fa metamorfosare in commedia ludica, danzante teatro
puparo, farsa surreale dai risvolti psicodrammatici.
Vitalizzato da una mite quanto
inalterabile ironia, il discorso dell’autrice vuole affermare le valenze
primarie della phoné, cioè del ‘suono’ che, concretizzato in armoniche
parole-azione, dà luogo al rito collettivo dell’evento teatrale. Un evento che
rinnova la fiducia nella poesia come occasione d’incontro, esperienza
‘recitante’ o atto partecipativo; e vorrebbe riaffermare la primogenitura o il
primato ‘storico’ dell’oralità sulla vincolante forma gutenberghiana.
Trasposto dallo spazio ‘chiuso’ e
tutto soggettivo della pagina scritta verso l’emozionale contesto pubblico, il
copione poetico punta, in un crescente fluire sonoro, ad affrancarsi dal modulo
tipografico-letterario e si apre, si dissemina e frammenta in una più vasta
gamma di possibilità espressive.
S’apre il sipario ed ecco – sul
palcoscenico d’un teatro prima ‘da camera’ e dopo itinerante a tutto campo – la
“marionetta”: un ‘pupo’ pirandelliano che, a coprire il vuoto d’identità,
indossa la ‘maschera’ della propria “anima burattina” talora errante per i
luoghi ricchi di memorie d’una Firenze alfine fantasmatica e sognante.
Ecco il dipanarsi delle vicende
femminili d’una processione d’“imperdonate” vestite di rosso e dalle labbra
sbavate di rossetto, di donne vindici contro un Don Giovanni sorvegliato dal
Convitato di Pietra.
Ecco due nere figure con bianche
maschere veneziane, convenute per “il Carnevale della vita”. Ecco, in pantomima,
la “bambola-bambina” dai capelli rossi che disegna il “ritratto-caricatura”
degli spettatori; o l’“Omino Nero”, evocante il palazzeschiano ‘omino di fumo’.
Indaffarata, reca un appendiabiti carico di costumi dalla foggia antiquariale
che la “Costumista” – un’Orchessa, una “grossa Barbona”, forse la Parca
rappresentante il Tempo mortale/immortale – appende a grucce ondeggianti a un
vento di tregenda.
Tutt’intorno, metafisici,
dechirichiani “manichinini vuoti” accompagnati da musiche di violino, echi di
risate, tuoni, cinguettii di uccelli, vagiti di neonato... Finché appare
l’Attrice – ombra orfica d’una Penelope, Andromaca, Ecuba o Lady Macbeth –,
incinta e in preda alle doglie. Che fa, partorisce… una marionetta?!
Bando ai simulacri autoreferenziali della poesia lirica, inadeguata a
riconoscere la linea di continuità fra il genere orale e quello scritto, poeta e
attore di poesia che vuole contraddire l’isolamento romantico e uscire da se
stesso è alfine un antropomorfico, paradossale… “Muro”: desideroso di uscire da
sé e monologante, da un profondo fondale di teatro, la propria storia. È stato
muro di piramide, di cantina e catacomba, corridoio, castello, bunker, vicolo,
lavatoio... Muro multimediale, radicato nelle città e nelle necropoli, in
chiese, altari, prigioni. “L’essenza” conclude “è che io nacqui con l’uomo”,
questo muro di se stesso ma risonante di respiri, affanni, soffi, rantoli,
ansiti, aneliti, ritmi musicali, voci di poesia.
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Recensione |
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