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Con Carmine Maino giochiamo in casa

Quando ebbi occasione di commentare con una breve nota la prima raccolta di Maino conclusi scrivendo “auguri Carmine ad maiora”. L’auspicio si è realizzato ed eccoci alla seconda esperienza, La voce de la cuscenze. Sottoscrivo volentieri queste paginette di postfazione, resa più facile dalla prefazione di Pasquale Totaro-Ziella che con la sensibilità e la competenza che conosciamo ha sviluppato l’analisi dei testi sotto l’aspetto linguistico ed estetico, segnalando inoltre una sostanziale continuità di pensiero e d'ispirazione.

Ciò che mi pare prevalga in questa seconda raccolta è il dato esistenziale che a volte sfocia in considerazioni di filosofia popolare, altre volte si stempera nell’ironia. Si va sviluppando in Maino una vena satirica destinata ad ulteriori approdi. Ma come capita a tutti coloro che si misurano con la satira, in prosa o in poesia non conta, si paga uno scotto ad un linguaggio senza freni inibitori che si esprime talvolta con la “parola forte” che fa arricciare il naso ai puristi, ma che assume un aspetto pittoresco nel verso dialettale.

Anche Maino ha pagato questo prezzo ma ne è uscito in fretta ripudiando Giovenale ed immettendosi decisamente nella linea satirica più nobile (non vorrei lusingarlo dicendo nella linea oraziana!) La sua poesia, quando non è satirica, non è mai giocosa, piuttosto si rifugia nel rimpianto di valori antichi, rifugio che è quasi obbligatorio per la poesia dialettale. Ma c’è un gruppo di poesie concentrate nelle ultime pagine della raccolta che affronta i più svariati argomenti riferiti agli accadimenti delle ore vissute dal poeta, a ciò che osserva, a ciò che pensa, a ciò che sogna.

Esce finalmente allo scoperto: la delusione della politica, l’ipocrisia della gente, l’arroganza dei potenti. Finalmente parla d’amore. Ma anche su questo tema si abbandona al registro dell’autoironia, specie quando inventa il Viagra dei poveri, meglio conosciuto come teste d’aglio. Quando leggerete questa nota, avrete già lette le poesie di Maino, quindi è inutile proporre riferimenti o citazioni, è l’opera nel suo complesso che c'interessa, un giudizio globale e retrospettivo che ci aiuti a capire cosa frulla nella mente del poeta, quali motivi spingono Maino a scrivere poesie e perchè in dialetto.

Maino è un giovane nel nostro tempo, che vive tutte le frustrazioni delle giovani generazioni ma sente il bisogno di farsi ascoltare in forma non violenta. Questi versi sono stati scritti verosimilmente prima che i tamburi di guerra risuonassero nella nostre contrade; se avesse fatto in tempo, sono certo che Carmine avrebbe speso il suo talento ed impegnata la sua vena contro le ipotesi non teoriche di un imminente conflitto.

Eppure Carmine è un giovane interessato al cambiamento, lo invoca ad ogni occasione, ma un cambiamento in pace e per la pace. La sua poesia è a servizio di un mondo nuovo, non così lontano da lui, il nemico da battere è “il prepotente”, “il signore artificiale”, “le cento facce della gente”, il degrado morale del suo paese, è l’incertezza del giorno dopo, la sacrosanta invidia sociale, la perenne immobilità che tutto rinvia “alla notte ca porte cunseglie”. Alla coscienza che vuole parlargli l’uomo d'oggi risponde “vine craje”. Maino vuole cambiare tutto questo e lo dice nella sua lingua, il dialetto.

Molti sono prevenuti nei confronti della poesia dialettale; anch’io lo ero prima di aver provato, lontano dalla mia terra, le emozioni autentiche della parlata locale e prima di conoscere quale dignità hanno i dialetti, ancorché più forti del nostro, in molte altre regioni italiane.

Oggi sono convinto che la valorizzazione delle differenze è elemento insostituibile dell’unità del Paese. Carmine Maino sa, scrivendo in dialetto, di contribuire a costruire un patrimonio culturale più vasto, ma al tempo stesso di tenere viva la fiaccola che fa luce sul passato della sua gente. Certo, come giustamente osserva Totaro-Ziella, siamo ormai lontani dal dialetto autoctono delle nostre comunità per secoli isolate sui cucuzzoli dei nostri monti, ma resiste una forma di linguaggio residuale che grazie ai poeti dialettali si salva dagli imbarbarimenti delle culture esterne ma non estranee.

Del resto anche la lingua nazionale è soggetta alla invadenza degli inglesismi ormai entrati a pieno titolo nell’italiano,(si pensi all’influenza che ha esercitato e continua ad esercitare il linguaggio informatico), ma la contaminazione più nefasta è quella che deriva dall’influsso dei dialetti forti per il tramite del linguaggio televisivo. Tutto ciò rende problematico difendere la purezza della lingua ed a maggior ragione salvaguardare i dialetti deboli come il nostro. A Maino, come a noi, non interessa un ritorno al purismo dialettale che non è mai esistito, ma conta la salvaguardia di un bene culturale che nella sua dinamicità ci conservi le radici.

Questo è il contributo che Carmine Maino sta dando alla sua Città di cui è pazzamente invaghito, pur rammaricandosi di non trovare riscontro in un solidarismo comunitario, la cui carenza suscita il risentimento e la reazione dei Grandi della nostra storia fino al punto di far girare le palle ad Orazio. In realtà sono quelle di Maino che girano a vuoto.

Recensione
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