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Luoghi della parola
“Debbo segnalare la mia
scomparizione”. Queste parole, citate in epigrafe (da “L’Uomo Zero” di Pietro Cimatti),
aprono La Casarca, nuova raccolta di versi di Lucio Zinna,
uno dei più interessanti poeti mediterranei di questi anni.
E la “Casarca” (casa–arca)
si configura appunto, se non come luogo della scomparizione assoluta, certamente
come luogo implosivo in cui si realizza “la riduzione delle essenze a un
germe minimo”, rifugio dove “in tempi di diluvio” si può tentare di
restare a galla “in attesa di un arcobaleno”.
In tempi in cui,
paradossalmente, il crollo dei muri – invece di cancellare le barriere –
le moltiplica dissennatamente e tragicamente, Zinna non cede alla retorica
delle facili esaltazioni e dichiara innocentemente il suo amore por la
condizione claustrale (e in un amichevole incontro che ho avuto con lui tra i
palmizi soleggiati dell’estate siciliana, lo sentivo ripetere, quasi
assaporandone il sottile gusto agrodolce, una parola rara e intrigante: “claustrofilia”...).
Verso questo suo Luogo
simbolico, Zinna percorre un movimento concentrico e di fuga, seguendo in ciò
una linea che attraversa parte consistente della sua opera (“Abbandonare
Troia” è ad esempio l’emblematico titolo di una sua precedente raccolta): è
fuga accorata e problematica, fuga da una storia. (“Eppure anche la nostra è
stata storia / (o preistoria o ipotesi di storia”...) che nello sfascio
palermitano di questi anni tocca simbolicamente il livello di massima
degradazione; fuga da un meccanismo sociale massificato e alienante; fuga da un
sistema comunicativo in cui la parola è “impoetica” e ridotta a inoffensivo
brusio telematico...
Il movimento della fuga è
connaturato alla condizione del poeta. Tutti i poeti, in un certo senso, sono in
fuga. Ma Zinna fugge in una sua maniera particolare. Fugge e nello stesso tempo
insegue: si dirige infatti verso i territori del raccoglimento interiore in cui
la sua Casarca,
come una nave di pietra,
veleggia alla deriva e lo aiuta a prendere le distanze dal mondo, conducendolo
verso un luogo di osservazione privilegiato proprio perché abissalmente
distante.
Nel suo annullarsi il
poeta si ritrova. Sembra voler ricercare una sua dimensione più autentica, fatta
di microeventi intimi e intensi (la calda compagnia del gatto Raffaele, le
serate casalinghe, dense di una qualche sotterranea lusinga, pur se dominate dal
blaterare televisivo), ma questo è solo uno dei versanti della ricerca. La fuga
non è resa.
A partire da
questa sorta di risentito “progetto di uno stile claustrale”, prende
forma una poesia di grande polivalenza tematica e stilistica in cui il
sentimento del verso si fa sentimento plurale dell’uomo e si traduce in musica
interiore ora raccolta, intima, densa, ora viva, giocosa e ironica, ma
sempre fortemente ancorata al vissuto inquieto di un poeta che
nonostante tutto, non rinuncia alle sue radici e alla sua quasi
pasoliniana “disperata vitalità”. Così, di contro agli alti risentimenti
morali e alla dichiarata sfiducia, lo vediamo aggirarsi pur sempre con
disagio nelle lande della capitolazione se è il suo – come leggiamo fra i
versi conclusivi di una delle più belle composizioni – un “fremente
rassegnarsi /alla rassegnazione…”. | |
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Recensione |
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