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Chersterton, citato da Emilio Cecchi in Scrittori inglesi e americani, confessa: “tutte le volte che un treno arriva alla stazione, io ho il senso che si sia aperta la strada sotto il fuoco d’innumerevoli batterie, e che l’uomo abbia vinto il caos…”. Se per lo scrittore inglese il treno rappresenta un mezzo di progresso tecnico per la società, l’Autore dell’opera in esame ha emblematicamente adottato la poetica immagine della vecchia vaporiera non solo come moderato mezzo di collegamento con le distanze ma soprattutto come un viaggio verso la conoscenza.

La cultura di Francesco Alberto Giunta é come un fiume: ne ascolta la voce e la trascrive sulla pagina, frutto della sua esperienza in ogni ramo del sapere, arte, poesia, filosofia, musica. Certamente i segmenti narrativi di questo libro sono densi di preziosità letterarie, perché redatti in una età in cui lo scrittore ha raccolto il massimo, della coscienza acquisita nel tempo e nello spazio.

Dopo qualificati interventi critici ogni ulteriore commento potrebbe sembrare ripetitivo. Perciò riduco all’essenziale la mia voce: per rifinire la figura dell’uomo e dell’appassionato studioso in cui trovano unità espressiva i pregi contenutistici e formali della sua penna.

Per non perdere il treno é prevalentemente un’opera autobiografica: l’Autore è riflesso nei vari personaggi assetati di sapere. Ma va subito rilevato che il racconto della propria vita affonda le radici nella terra nativa da cui emana il primo respiro, nutrendosi progressivamente dell’atmosfera esistenziale fino al canto dei valori assoluti: famiglia, religione, amore. Sono questi gli elementi su cui costantemente poggia il sentimento della sua spiritualità, che ha un supporto di passione letteraria rappresentante il punto di forza del lavoro di ricerca analitica.

Scopo dell’iter é riandare al passato, come afferma lo scrittore nell’ultimo capitolo riepilogativo: Cercando me stesso.

Nei racconti Il respiro dell’uomo del 1992 W. Mauro sulla scrittura del narratore siciliano puntualizza: “la tecnica compositiva che accompagna i moduli espressi di comportamento, le azioni stesse dei protagonisti e dei comprimari, conferma talune meritorie doti del novellatore d’altri tempi che già si conoscevano in questo scrittore”. D’accordo su questa precisazione. Si tenga presente che una costante malinconia costituisce la cifra di questo libro. Allontanarsi dalla propria terra per ripercorrere il cammino fatto da giovane studente é come rinascere in quel paese che lo accolse: Lovanio. Ma assistiamo al crescente smarrimento del Protagonista, ormai appesantito da esperienza e sapere, nel vedere tutto cambiato: i luoghi, le persone, le cose, le vie. Sì chiede: “Che ne sarà stato del semplice Café de l’Avenir presso il quale spesso arrangiavo il mio pranzo; pensai alla frutteria di primizie presso la quale ci accoglieva una bionda Maria che noi studenti squattrinati ma ardenti nel cuore sognavamo. Acquistavamo con le verdure pure sogni”. Uomo assetato di conoscenza rivedeva con l’occhio del passato il paesaggio così diverso, “anche i luoghi che avrebbero potuto resistere al tempo e tra questi il vecchio “ABC”, il locale dove andavo a ballare con Mimy al tempo de La vie en rose”. Per incidens, mi piace ricordare la tenera sensibilità d’amore del N. per Mimy e Dolly: “…prima di chiudere educatamente il telefono mi limitai a dire: Addio, parto, anche io parto, ritorno alla mia isola del sole portando nel cuore Mimy e te cara Dolly”.

Con un pesante rimpianto del passato, gelosamente custodito, fa ora ritorno in Sicilia, ma nella sosta parigina dice al tassista: “andiamo al più antico Café del mondo, quello fondato nel 1686 dal gentiluomo palermitano Francesco Procopio dei Coltelli. Era l’ora di chiusura ma feci in tempo a cenare nel ricordo di letterati e di uomini politici che lo frequentarono”, i grandi della letteratura francese “legati al vecchio mondo di studente e di promeneur alla ricerca di vie e visi nuovi”.

Prima di chiudere queste fugaci note, desidero porre in rilievo un aspetto più politico che letterario che ne dimostri l’apertura mentale: Francesco Alberto Giunta si può considerare uno dei propugnatori dell’Unione Europea. Nella novella “Andar per Pane”, Luigi, nel quale riteniamo di identificare il N., di ritorno in Italia, conversando con gli altri viaggiatori, si sentì chiedere se ci fossero le condizioni per realizzare“una Unione Europea”. Luigi rispondeva sostenendo con convinzione tale disegno, ma avvertiva lo scetticismo nel sorriso degli altri. Solo lo stesso viaggiatore, pur avanzando delle ragionevoli obiezioni, si mostrava interessato alla cosa che assumeva concretezza, in quel clima di incredulità generale. Se pensiamo che questa conversazione si svolgeva nel ‘49 possiamo non convenire sulla lungimiranza dello scrittore che con prontezza sembra avere abbracciato il progetto spinelliano. E, cosa ancora più apprezzabile, nel sostenere questa tesi, già poneva in rilievo la necessità di salvare culture e tradizioni nazionali, che non avrebbero dovuto perdersi nel crogiuolo progettuale di una Europa Unita. Un certo fermento allusivo è avvertibile anche in “Era tempo d'Europa” e, per ultimo, in “Cercando me stesso”, quando era intento a parlare con Rodica, sfuggita con la famiglia dalla Romania, “dei nostri sogni giovanili e delle fortune di una Europa Unita”.

Abbiamo fatto, anche se a volo d’uccello, un lungo percorso sul treno di Francesco Alberto Giunta. Con lui molti sono gli artisti che sembrano trovare in questo mezzo di locomozione un’immagine emblematica. Per citarne qualcuno, abbiamo aperto queste note con Chesterton e le chiudiamo con i versi di Blaga Dimitrova: “Non arriverà più un treno da altri luoghi. - Non più. - Dovrò io stessa diventare - il fischio di un treno lontano.” E se la poetessa bulgara in Sala d’aspetto sembra essere rassegnata, per il narratore Francesco Alberto Giunta siamo certi che l’attesa è preludio a un nuovo viaggio lette­rario e il fischio annuncerà il momento della partenza.

Recensione
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