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A otto anni dall’uscita del volume antologico Il verso di vivere (Caramanica, 1994), Lucio Zinna, poeta narratore e critico di stanza a Palermo, torna in libreria con una raccoltina che già nella veste dichiara il sapore elitario delle cose preziose: ventiquattro testi lucidamente introdotti da Rodolfo Di Biasio, la gran parte inediti, accolti sotto il titolo La porcellana più fine nella collana Palinuro dell’editore Sciascia.

Si tratta d’uno spartito minimo, quanto all’estensione, al carico dei versi; d’una sinfonia sapientemente tessuta, espansa e corrusca, quanto alle voci di fondo, alle vibrazioni, alla carica dei sensi che porta e suscita. Intanto va rilevato che mai come in questa prova, Zinna nel corso della densa ventura lirica, tocca il segno della pienezza barocca, il registro alto d’una scrittura mimetica, feconda di suoni ed echi, folta di incastri lessicali, a perfetta tenuta di sintassi.

Basterebbe l’esito orchestrale, la cifra stilistica a segnalare il frutto tra i pochi sapidi dell’annata. Ma vi è altro a esercitare presa sul lettore: la sinuosità tematica, la tensione ispirativa che volta a volta, in una visibile continuità (si osservi la tripartizione), ha trovato voce in accordi e sequenze che dicono il lungo sguardo della vita, e tentano non tanto un bilancio del dare e dell’avere, non tanto un resoconto di memoria quanto, modernamente, uno scavo, un recupero, un’annessione atemporale di ciò che nella vita è esploso da antiche radici, di ciò che l’ha fatta amare e benedire, di ciò che la rende inobliabile e misteriosa in una diacronia che include anche la morte.

A cominciare dall’infanzia, vissuta tra le ombre dell’emergenza bellica: “Materna a noi | fu la pietra arenaria − il giallo | della casa dei campi della chiesa | svettante nel borgo − e fu paterno | l’albero vigoroso dalle foglie colorate | di speranza”. In quell’infanzia si stagliò limpida una nonna, nume che ancora illumina con le pupille la casa rupestre; passarono compagni che il vento disperse, paesi e paesaggi, luci dell’isola amata. Poi per l’uomo fu la stagione dell’esperienza totale: d’anima e di sensi, lievitazione ed estasi, unisono di corpi e intelligenze che si cercano e congiungono, felicità senza peccato.

Di quella stagione nulla è perduto al cuore che la ricanta: “Di silenzi | sono tue parole e hai per il mio derma | braci e unguenti a riposanti insonnie. | Quale Iddio ti creò da quale costola |di quale Adamo mele quali serpenti | alla felice cacciata dell’Eden | che ti fece dell’eros perfetto simbolo. | Benedetti siano il dolore e la fatica | la morte stessa se amore li compensò”.

Finché in un diverso sentire, in una latitudine sconfinante tra rimemorazione e meditazione non si propaga l’onda d’un avviso, d’un pensiero che è coscienza della labilità del presente, sfiora l’intangibilità dell’eletto, rintraccia le sembianze di cari morti, affonda nell’insondabilità del mistero. Così Zinna perviene al luogo cruciale del suo percorso, quello che dà titolo alla silloge: “La porcellana più fine | è la speranza (la “fede” avresti detto) che qualcosa si muova oltre l’alpacca | del dubbio che qualcuno ci attenda | oltre quel filo”.

Maturo d’esperienza, sazio di cultura, il poeta avverte che il cerchio non si chiude. In tale presentimento, negli ultimi versi, si profila il faccia a faccia con Dio. E il rigoglio barocco alla fine risulta retto da un robusto fiato etico.

Recensione
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