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Le verità della letteratura
Le verità possibili
Chi non conosca a fondo l’opera
critica e filologica di Giorgio Bárberi Squarotti può averne un quadro
d’insieme, seppure in forma di compendio, nel volume
Le verità della letteratura, edito da Fermenti. Certo, ogni libro
“contiene” in sé tutto il suo autore e lo rappresenta, anche quando è il
frammento di un discorso più ampio, ma i quattordici saggi che compongono il
testo, consentono una visione complessiva di anni di studi e di amore per la
letteratura. Non uso il termine “passione” che, appiccicato a uno scrittore
così scrupoloso nelle sue analisi critiche, si ridurrebbe a un bollo
sentimentale. Eppure questo il libro comunica: una grande vivacità
interpretativa, una gioia di scrivere dopo avere letto in profondità ogni
poesia, ogni romanzo.
Si tratta di una perlustrazione della nostra
letteratura, che, senza la pretesa di essere un’enciclopedia critica
tascabile, indica un percorso di conoscenza fatto di sfumature tonali:
alcuni capitoli hanno l’abbrivio da una parola chiave vista nelle sue
significazioni letterali e allegoriche: le “grandi acque”, che, evocate come
elemento della chiarezza primordiale o come simbolo della purificazione
impossibile, costituiscono, da Petrarca a Ungaretti, da Marino a Montale,
una misura, una prova inevitabile per l’immaginario di tanti
scrittori. Il primo excursus illumina le variazioni metaforiche della neve,
raffigurata spesso come allegoria della fine e della morte; e qui si pensi
al significato che la stessa parola-idea assume nella scrittura di Squarotti
poeta: la neve in cui si specchia una città del Nord, le anime che cadono e
si sciolgono sulle pietre come neve. Alcuni capitoli sono appena dei
tratteggi, sembrano l’introduzione a un’opera mai scritta o di là da venire.
(Si veda il capitolo dedicato alla poesia dialettale, con il richiamo
pascoliano al mondo della memoria felice.)
Altri sono rapidi indugi su
concetti-simboli, attraverso la comparazione formale di scrittori lontani
per gusto e sensibilità: l’idea del carcere come esclusione dal mondo e
dalla vita, nella similitudine tra Pavese e Verlaine. Il lettore abituale
dello studioso piemontese può divertirsi, passando da un capitolo all’altro
senza un ordine prestabilito, riannodando i singoli passaggi del libro in un
percorso ideale che rifletta la propria conoscenza dell’autore. Constatando
come la versatilità dei suoi interessi letterari abbracci un tempo
lunghissimo, popolato dagli scrittori antichi e moderni a cui si è dedicato
nel corso di un cinquantennio. Quelli che ha studiato e amato (Dante,
Montale, Sbarbaro etc.), e quelli che ha studiato con il rispetto del rigore
scientifico (D’Annunzio). Non mischiando mai ragione-adesione e
sentimento-gusto. La stessa parola “verità”, declinata al plurale, non
allude al soggettivismo che fa corrispondere a un io individuale – cioè a un
singolo scrittore – un’interpretazione della realtà valida solo per chi la
esprime. Non è la filosofia logora dell’impossibilità di una verità
assoluta: sarebbe la flebile eco di tante pagine del Novecento europeo. È la
verità multiforme delle parole che a Bárberi Squarotti sta a cuore, quella
che si deve declinare necessariamente al plurale, in quanto espressione di
un segno individuale, prodotto però dalla storia e attraverso la storia.
Il
che corrisponde al concetto di stile che egli stesso ebbe modo di precisare
nel 1961, definendolo «lo strumento ed il processo stesso della creazione
artistica, la sua intima organizzazione, oggettiva nella sua essenza di
conoscenza comune… intersoggettiva nel senso della definizione e
dell’illuminazione dei comportamenti tipici di una particolare e determinata
(storicamente) situazione dei sentimenti… infine soggettiva nella sua
definizione ed organizzazione conoscitiva anche dello spirito veramente
individuale». * L’errore che molti lettori commettono è quello di pretendere
che un testo critico abbia sempre un carattere esaustivo, che dica più di
quanto voglia dire. Perciò, chi considerasse l’esclusione di alcuni autori
dall’indagine di Squarotti come un giudizio di valore, con lo scopo di
stabilire giudizi e gerarchie definitivi, sbaglierebbe. Il capitolo quinto,
dedicato alle città, esplorate attraverso lo sguardo degli scrittori, è
volutamente manchevole e non può rendere conto delle molteplici differenze
che fanno dell’Italia l’unicum che è, in senso letterario e “linguistico”.
Perciò Milano e Torino assumono un ruolo predominante, come luoghi di
elezione per il loro valore di centri economico-culturali; perché vi hanno
vissuto e scritto autori fondamentali del Novecento italiano; e perché più
vicine all’autore per storia e per struttura mentale, più “decodificabili”
nei loro segreti rispetto alle città del Sud. Milano, per esempio, non è
solo un’entità geografica e culturale: è il simbolo di un paese che aspira
alla modernità, ma che deve fare i conti con il male insito nella storia: è
la Milano straziata dalla guerra, di cui parlano i siciliani Vittorini e
Quasimodo e il campano Gatto. C’è la Milano operosa, brulicante di vita di
Bontempelli; la Milano grottesca di Tessa, con la sua allegria funebre; e
c’è quella di Testori, che nasconde il suo ventre osceno nei quartieri
popolari.
Tre autori lombardi, che rappresentano tre città intimamente
diverse. E poi la Torino di Pavese, quella del Gozzano de I colloqui,
«favorevole ai piaceri», ma pervasa da un’ombra di decadenza. E poi la
Genova di Sbarbaro, altra da quella del non genovese Caproni, la Trieste di
Saba, che si identifica con una donna, anzi la donna. Un universo
mondo chiuso in ogni città e diversamente vivo a seconda di chi la osserva.
L’autore chiude così la rassegna delle città, per non inoltrarsi in una
digressione lunga e complessa: «Mi fermo qui: non
arrivo a Roma e a Napoli e a Catania e a Palermo, cioè alle città del Sud,
che richiedono altri modi di rappresentazione che moltiplicherebbero il
discorso fino all’eccesso. Le città, in Italia, non sono condizionate, come
in Francia, da un centro fondamentale, che assorbe e compendia tutto il
dicibile urbano nel nome di Parigi. Sono, da noi, figure del Male storico ed
esistenziale e dimostrazione dell’operosità, della novità dei costumi e
delle attività, della tensione al futuro, e anche celebrazione della
bellezza e della memoria. Di qui la varietà dello stesso discorso critico
quando intenda guardare al “genere” della città quale punto di riferimento
interpretativo e descrittivo». Sul senso dell’ultimo aggettivo lo scrittore
ritorna introducendo l’ottavo capitolo, quando ribadisce che «la letteratura
non è mai semplicemente descrizione, emozione, passione del cuore quanto,
invece, è reinvenzione e citazione di altri precedenti testi, commento,
variazione, successivo sviluppo di concetti, di ritmi, di immagini e, alla
fine, nuova creazione».
La
varietà del discorso critico rappresenta per Squarotti la moltiplicazione
dei punti di vista, e si accorda con il concetto mutevole di verità, che
solo nella vitalità delle parole può trovare una formulazione autentica. In
letteratura, quelle che animano le parole sono le uniche verità possibili.
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Recensione |
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