La narrazione del mito
Veniero Scarselli
in: Franco Manescalchi
La città scritta. Poesia del secondo Novecento a Firenze
Edifir 2005 [pp. 384-385].
In una sua intervista su «Il giornale dei poeti», aprile 2004, Veniero
Scarselli afferma:
La continuità narrativa infatti e già capace da sola di esprimcre un
supermessaggio più complesso e articolato delle poesie prese singolarmente. È
un supermessaggio, in quanto raccoglie, articolandoli in un contenuto più
generale, tutti i messaggi particolari e più semplici delle singole poesie.
E ancora:
la poesia che non insegni qualcosa, o non induca alla riflessione
arricchendo la nostra consapevolezza, rinuncia alla sua funzione più
importante, conferitale fin dall'antichità, di trasmettere agli altri una
concezione della vita, una saggezza, una coscienza morale, che possano
costituire per tutti ancora oggi dei punti di riferimento.
Questo perché:
La ventata vivificatrice del decadentismo sembra esaurita. Sotto gli occhi
di tutti e la folla di suoi nipotini, che scorrazzano tra futurismo ed
espressionisnto, ermetismo e lirismo intimista, poesia "sfogo" e
sperimentalismo d'avanguardia: una babele di correnti accomunate da un'unica
colpa: aver prodotto una frattura fra i poeti e il loro pubblico e aver
confinato la poesia in un vero e proprio ghetto.
Mi sembra che queste premesse possano essere poste a base di un discorso su
mito come narrazione.
In particolare, Veniero Scarselli esordisce nel 1988 con Isole e vele,
(Forum quinta generazione), e subito Vittorio Vettori lo definisce "mirabilmente
capace di coniugare l'impegno conoscitivo più serio con una ricca vena di
canto".
Si tratta del primo di una serie di poemi che, realizzando una ricerca
poetica praticata fino dagli anni giovanili, dà luogo a poemi epici o
monotematici ispirati alla forma della Chanson de geste, al di fuori
della poesia lirica occasionale, come si legge nel colofon della sua ultima
opera.
A conferma, di libro in libro, l'autore esplica il suo "profondo travaglio
meditativo" in un "viaggio — come strive Luigi Baldacci — ossessivo in un
tragico tunnel che si chiama corpo, visceri, sesso (...)".
E probabilmente è questa la chiave di una scrittura permanente/immanente,
tesa a fermare un dopo ed un prima, nella presente materia dello snodarsi della
voce, di cui, ad esempio, Emerico Giachery, coglie "la tensione quasi
insostenibile, il grido, soprattutto l'infinita pietas" e dunque ne
conferma la natura speculativa dove l'ispirazione si fa pensiero ed il pensiero
penetra nel farsi e disfarsi di mondi interni ed altri.
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