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«E l'acqua gelida sussurra tra i rami di melo, e di roseti tutto il luogo è ombreggiato, e allo stormire di foglie sopore si effonde». Questa espressione della poetessa greca Saffo, vissuta nel VII secolo a. C., posta ad epigrafe di una delle sette parti in cui è divisa la silloge di poesie di Giorgina Busca Gemetti (poetessa di Gallarate, ma nata a Piacenza) dal titolo Parole d'ombraluce, mi sembra indicativa dell'intera raccolta. Vi sono racchiusi, infatti, i concetti principali della sua lirica: l'ombra e il sopore, quindi il buio e la morte, da una parte, e dall'altra, quasi per contrasto, la natura, la luce e la vita.

La poesia di questa poetessa, per le numerose epigrafi apposte o alle liriche o alle varie sezioni, appare quasi un dialogo con autori del passato o contemporanei come Ibico, Teognide, Mimnermo, Orazio, Virgilio, Petrarca, Pascoli, Carducci, Kavafis o Peter Russel, che ne ispirano il tema, o dai quali vengono mutuati, con uno spirito totalmente nuovo, espressioni e concetti. Si tratta di un convivio a distanza, un colloquio ideale con chi si ha comunanza d'affetti, di sentimenti e di esperienze di vita. La parola poetica acquisisce così un valore epifanico ed universale, un mezzo di comunicazione di equilibrata trasparenza, in cui la connotazione epistemologica tenta di cogliere le appariscenze del visibile per scovare il male in un rapporto luce-ombra, per volgere a quel bene che sta entro ogni uomo, alla ricerca di una affascinante bellezza metafisica che si espande nell'etereo infinito. In questo contesto anche il mito assume una valenza simbolica e di confronto per una lettura metodologica dei mali dell'umanità. I riferimenti sono a Prometeo, come a Cerbero, a Caino o ai Bronzi di Riace, agli Elfi o alla fata Morgana.

Nella sua analisi poetica ed emozionale la poetessa si mostra profonda conoscitrice dell'animo umano, attraverso un linguaggio puro ed una poesia “sublime”, per usare il termine del più noto trattato di estetica dell'antichità giunto sino a noi, di un'umanità che si trova in un perpetuo cammino verso quella speranza spesso enunciata e sempre ricercata. La poesia, tramite lo strumento della parola, si fa divina. La letteratura da astrazione diventa concretezza, diventa spirito e contingenza nello stesso tempo, nell'ambito di una ispezione dei profondi meandri dell'io nella consapevolezza che la sensibilità sappia smussare anche i contenuti drammatici della vita.

L'opera è divisa, come dicevo, in sette parti ed ogni parte tratta un tema specifico. La prima, "Aegritudines", come sottende il termine latino, vuole implicare le 'malattie,' non certo le malattia fisiche, ma quelle dell'animo, tanto che ad epigrafe viene posto un famosissimo verso di Saffo: «Vorrei veramente essere morta». Ma la morte, che è dissoluzione di ogni cosa, diventa solo aspirazione, mentre la vita continua ad esistere, proprio perché la parola ha una potente capacità salvifica, quella di rendere eterni ed immortali. «La mia pagina bianca, silenziosa, | attende ancora versi | che parole fluenti come il miele | in fitte tracce nere sul candore | imprimano, che l'animo | sostengano nel sopportare il fiele | amaro di quest' attimo infinito» scrive la Busca Gemetti. Il male dell'uomo contemporaneo diventa malattia, ma anche assenza e nullificazione, nella percezione di un' anima che si trasforma in zattera per trasportare l'uomo dalla vita del Nulla alla vita del Tutto, dalla materia allo spirito, dall'ombra alla luce, alla ricerca di se stessi nell'interiorità del pensiero, attraverso un varco verso la luce. Si veda la lirica "Il varco" dove, come il Montale de "La casa dei doganieri", l'autrice va alla ricerca di un varco di salvezza, volendo quasi oltrepassare un muro che ha sulla cima cocci aguzzi di bottiglia, come in "Meriggiare pallido e assorto" dello stesso Montale. Ma forse ogni lotta è inutile, forse la vita è fragile e non è possibile raggiungere la meta. La fragilità appare costantemente nella poesia della Busca Gemetti: «Argilla sono, | duttile forse un tempo | tra le contorte dita | d'oscuro ceramista, folle di forme tragiche». L'ombra allora diventa nulla. L'uomo diventa una monade. La solitudine è la sua condanna

La seconda sezione, che ha per titolo "Luce di Calabria", insiste sempre sul termine luce che, contrapposto al buio, resta in linea con i termini chiave dell'intera silloge. Ma il richiamo alla Calabria non è solo fisico, la descrizione dei luoghi incantevoli sono rivissuti personalmente attraverso l'elevazione della poesia La sezione è un canto alla bellezza della natura e ai suoi meravigliosi colori, suoni, immagini: dall'alba, che dissolve la tenebra notturna e che lascia sbocciare i candidi pensieri, all'Aurora dalle classiche inflessioni di "dita di rosa", dove il colore incanta l'uomo e lo estasia, dipingendo di fiamma l'orizzonte. L'aurora, che risplende tra morbidi petali di fiori, è il simbolo della nascita e della vita. Per contrasto le bellissime coste della Calabria, dove lo sciabordio delle onde sembra coprire le chiassose cicale, mentre il canto notturno dei grilli compete con esse. E se a volte il colore si tramuta in ombra, la luce in buio, appare sempre la speranza dell'alba Su uno sfondo azzurro, dove anche l'anima diventa azzurra, tutto si trasforma: gli alberi, le colline, le colonne antiche che si stagliano nel cielo, o la Cattolica di Stilo con le cupole della sua antica chiesa bizantina, mentre tutto lascia fiorire «i sogni, gli ideali, le visioni».

La terza sezione ha come titolo "Il tempo, la memoria, la poesia". La memoria conserva e trasmette le azioni, gli eventi e le emozioni agli altri, nel futuro, anche dopo la morte. Nell'ambito di un passato, che il tempo logora e sbiadisce, la poesia fa di tutto per renderlo vivo ed imperituro. C'è qui un senso di nostalgia, di ansia e di attesa d'una salvezza dall'inquietudine, dall'umano travaglio. Il racconto esistenziale si trasforma in scintilla divina, in echi soprannaturali che sorreggono l'anima «nel lento e malinconico cammino | verso la selva grigia». E la memoria non può non ritornare al luogo natale, quale è la nativa Piacenza. E qui sgorga tutta la passione, che riporta a modelli classici, verso la propria patria o la propria città. Si pensi a Dante, a Petrarca, a Leopardi, per non dire di tanti romantici patrioti o poeti. La patria è come una madre, che non si dimentica mai. E la memoria riporta, come mezzo di salvezza e di riscatto, anche agli affetti famigliari, ai più semplici e quotidiani, come nella poesia "A colloquio con le zie": ma è proprio questa memoria che fa scivolare l'uomo nel tempo, nella fugacità del tempo. Tempus fugit, il tempo scolora la memoria, ma, come afferma Orazio con una nota espressione che diventa anche titolo di una poesia, Non omnis moriar, non morirò del tutto. Ed a condurre alla salvezza sarà ancora una volta la parola.

La quarta sezione è "Macchie d'ombra". Giorgina Busca Gemetti pone al centro la speranza, quale veicolazione e strumento per raggiungere la felicità. Dopo un punto di partenza negativo che coincide con il dolore e la sofferenza, l'ombra perde tutta la negatività per trasformarsi in luce. Sono queste le poesie che trattano il dolore dell'uomo nella sua universalità e qui i riferimenti sono a fatti recenti: Baghdad, Nassiriya, la strage di Beslan, la Shoah, le foibe carsiche. Il dolore personale si trasforma in un dolore universale. L'uomo soffre ovunque nel mondo: dalla Russia all'oceano Indiano, dall'Italia al Medio Oriente, ma la visione della poetessa è sempre positiva, pur nell'apparente negatività. La poesia ''Baghdad'' si apre con una visione di sogno: "Nome di fiaba, pregno di memorie | che risvegliano splendide fanciulle | fasciate d'impalpabili colori | fluttuanti mentre danzano sensuali; | una intesse meravigliose favole». Dalla visione ideale si passa agli orrori della guerra, ma quella che è posta come condizione iniziale diventa la condizione finale cui l'uomo aspira: la pace. Eppure il cammino è cosparso di spine. Ed ancora una volta viene in mente il pensiero di Giobbe, che si lamenta con Dio, e che la poetessa sinteticamente esprime: «Perrché, Dio, tutto questo? | Dove guardavi, Dio?».

La quinta sezione è un epicedio per la madre. Qui gli affetti famigliari hanno il sopravvento. Ed ancora una volta il contrasto luce-ombra si intreccia ai grandi perché della vita, al destino dell'uomo, all'ascolto e alla comunicazione con le persone care; e soprattutto al problema del nulla o della vita dopo la morte, nulla che è però onniveggenza, che è anche pace e silenzio: «Non c'è più tempo, madre, | di camminare l'una incontro all'altra | per dire quelle semplici parole | che rimasero mute tra le labbra | serrate come pietre».

Nella sesta sezione dal titolo "Luci ed ombre della natura", è la natura ad assumere la prevalenza espressiva. Il dolore umano e la negatività vengono filtrati attraverso di essa. Sembra che si voglia riscrivere la storia nella luminescenza della natura, che a volte ha sapore di morte. Il melograno, come è il titolo di una lirica, richiama ''Pianto antico" di Carducci, quindi la morte e i tanti perché della crudeltà della vita. Si tenta di rifuggire dal dolore rifugiandosi nella natura che, con il suo alone di stupore e di nostalgia, libera colori e suoni, in configurazioni espressive di eterne visioni e gestualità salvifiche. La natura diventa nebbia e la «nebbia avvolge nel suo grigio manto | le mute cose, gli alberi silenti. | In un oscuro vuoto amaro pianto | piomba l'anima muta ai sentimenti" scrive la Busca Gemetti, esprimendosi in un sonetto dall'impeccabile forma stilistica, contrariamente ai versi liberi, ma anch' essi ben curati, delle altre liriche.

Infine "Amores", gli amori. Questa sezione, la conclusiva, è la più sublime e nello stesso tempo la più profonda, nella sua semplicità espressiva e nella brevità delle liriche. L'amore è attesa, è sofferenza, è sacrificio, ma soprattutto offre attimi di meravigliosa felicità. L'amore è anche turbamento, ma è donare, donare tutto se stesso all'altra, in un rapporto biunivoco e reciproco. Un "io" di fronte ad un altro "io", un "io sono" di fronte a un "tu sei", che costituiscono un "noi". In questo contesto non poteva mancare l'emblema dell'amore, "Afrodite", cui è dedicata una lirica, dea da adornare di "rose e di viole", descritta con una citazione del Leopardi. Ma "l'amore è morto" afferma il penultimo titolo, e proprio alla fine "l'amore non è morto". Come Iside ed Osiride, l'amore nasce e muore, l'amore si rigenera. Io «t'ho ucciso soffocando nel mio animo | la viva fiamma che ardeva di porpora, | splendente come il sole nel deserto», ma dall'altra parte: «Non può morire la forza vitale | che l'universo genera e sostiene, | perpetua dei viventi ogni famiglia | ed anima lo spirito».

La poesia di Giorgina Busca Gernetti, in questo percorso ideale, appare in armonia con l'universo, e si offre al lettore in una classicità non certo formale, ma sicuramente sostanziale, anche se il richiamo al classicismo è frequente. Non si ferma alla formalità delle cose. L'autrice assimila i classici e li fa propri, il suo verso ne acquisisce in profondità di pensiero ed espressività. Frasi ed espressioni dei vari autori si intrecciano così bene che solo un occhio attento riesce a distinguerle, la freddezza dei classici viene filtrata da una sensibilità non comune, e il pessimismo, che spesso fa da sottofondo, viene superato con la quotidianità delle azioni e con la estatica contemplazione della natura.

Le liriche della Busca Gernetti offrono una raffinatezza espressiva, un’elegante percezione, una delicata armonia tra le parole e i concetti, e la sua poesia, intessuta spesso di metafore e sinestesie, di metonimie e climax, di anafore e iterazioni, manifesta la personale lacerazione esistenziale, con un ripiegamento verso la rassegnazione della vita, che non significa sconfitta, ma costanza nella lotta, in un percorso sincronico e diacronico, che si scioglie nel desiderio di conoscere i misteri dell'esistenza e di dare una risposta, attraverso il sogno e l'immaginazione, ai tanti interrogativi esistenziali.

Recensione
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