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Desiderio di infinito e di luce in Giovanni Tavčar

«Ecco allora venir fuori la fede, la religiosità, la saggezza derivata dagli anni, l’anelito verso Dio, al cospetto di quell’infinito che più volte si ripete come sicura grandezza che sconfina oltre l’umano sentire» questa è l’interpretazione chiave che dà Eugenio Rebecchi nella sua breve, ma espressiva presentazione alla silloge di poesie dell’autore triestino Giovanni Tavčar:

Sospenda la cartomante il suo gioco di carte!. Il titolo della silloge è già di per sé indicativo. Vuole fermare l’attenzione su qualcosa che esprime il mistero dell’animo umano attraverso una interpretazione esistenziale ed oggettiva. La cartomante diventa interprete di un futuro misterioso ed incerto. L’uomo vuole sapere. Più che il dubbio è la conoscenza di se stesso che lo tormenta.

Allora l’uomo si propone degli interrogativi. Chi sono? Perché vivo? A cosa mira la mia esistenza? L’uomo vuole conoscere il proprio destino, ma sa che è impossibile poterlo scoprire interamente. La ricerca interiore non può non fare venire in mente S. Agostino: «Non fosti tu, o Signore, il maestro dell’anima mia che ora ti glorifica? … Prima che tu dessi forma e figura a quella massa informe, nulla esisteva; non colore, non figura, non corpo, non vita... esisteva un caos senza forma». Ma il destino, secondo Tavčar, è imperscrutabile, benché l’uomo corra verso la conoscenza. «Neppure le grida / che salgono angosciate / dai baratri della disperazione / riusciranno a fermare / la mia corsa / verso l’incandescente / apoteosi del sole». In questa ricerca l’infinito e l’orizzonte diventano elementi essenziali. La coscienza della propria nullità fa deporre la fiducia in Dio, unica essenza imperitura ed eterna, ma soprattutto consolatrice. Il mondo è vano. Le cose materiali sono caduche, la vita è labile essenza. Allora per «poter udire / la voce di Dio / ci vuole la grazia / santificante / del silenzio». Una volta svelato il futuro, si è vanificato il mistero. L’infinito diventa quasi elemento unificatore tra ombra e luce.

Eppure l’infinito non può essere annullato, fa parte di quel mistero che coinvolge l’uomo. Il viaggio verso la meta sconosciuta diventa ricerca personale, ma anche attesa e aspettativa. L’uomo è una parabola che si proietta all’infinito, non nelle grandi o incommensurabili cose, ma nelle piccole, perché «il mondo è fatto di piccole cose infinite». L’infinito rappresenta la fede in se stessi e negli altri, porta alla coscienza e alla libertà nello spazio.

E nella poesia di Giovanni Tavčar sono proprio la spazialità e l’infinito ad esprimere il mistero interiore. Il termine “infinito” infatti ricorre tantissime volte nella sua silloge. L’infinito dà senso alla morte e alla vita. L’infinito è la chiave della conoscenza. L’infinito è sapersi guardare dentro e rispondere ai propri perché interiori. L’infinito è poesia. E la poesia di Giovanni Tavcar è tutta interiore, espressa in una forma comunicativa eccezionale. Sa comunicare i propri dubbi e le proprie perplessità, ma sa dare al lettore una forza superiore, la forza delle cose belle, luminose, assolate, virtuose, vere.

Recensione
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