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Prefazione a
Dal fuoco etneo alle acque polesane
di Maria Luisa Daniele Toffanin
la
Scheda del
libro
Giuseppe Manitta
Allora
ritornare ai luoghi
nell’aria di mare che pacifica
è
riprendere coscienza di se stessi
nel
corpo rugoso e nell’anima viva.
***
Ogni
luogo è specchio
di
emozioni uguali diverse
come
amori giovani
raccolti
tutti
nelle
aiuole del cuore
energie
vitali rinate.
La silloge di Maria Luisa Daniele Toffanin è una poesia dei luoghi, così come si
evince dai brani appena citati, ma si tratta di un gioco di “specchi” in cui
l’anima si riflette sulla realtà tangibile e, di contrapposto, sul suo valore
simbolico. Dal fuoco etneo alle acque polesane condensa la dialettica
dell’io non solo nella sua connotazione termica (caldo-freddo) ma anche nella
sua indicazione cromatica e, infine, nella classificazione ossimorica. In queste
opposizioni rientra la collocazione geografica che va dal sud al nord, cioè
dall’Etna alle acque polesane, due luoghi in cui l’autrice affonda le proprie
radici e attraverso i quali è possibile cogliere la propria essenza. L’Etna, la
montagna per eccellenza dei siciliani, la montagna sacra (come afferma la
Toffanin) è il topos in cui ritrovare se stessi, ma anche il simbolo
della vita oltre la morte, in cui la ginestra, o il pino, riescono a superare
leopardianamente la ‘brullità’.
La bellezza, scrive ancora l’autrice, è
femminea, è donna, come donna è anche la “Montagna”. In questa riappropriazione,
il prato Perrotta diviene crogiolo di ricerca e rifugio dal turbine della
civiltà moderna: «Spazio voluto da Dio questo / non l’altro meccanico / rumore
assordante l’anima / strappata dalla sua nicchia nativa». Il nesso tra splendore
naturale e immersione nell’anima caratterizza anche le liriche del passaggio al
luogo “altro”, cioè quelle dedicate alle acque polesane: «Estiva fanciulla
scopro / incantesimi minimali / d’acqua e fronde infiniti / nel variare di suoni
segni colori / orizzonti altri di luce». Cogliere la genuinità consente di
stupirsi ancora di fronte al mondo, di assaporarne i frutti, di immedesimarsi:
«È fiume-chiatta di ricordi / infanzia che galleggia / in verdi distese /
d’acqua di campi / è brivido carpito / sul filo dell’onda che torna / fra dolce
profumo - memoria di nebbia».
I ricordi costituiscono il substrato nel quale spesse volte si ritrova la
propria linfa, ma, come si accennava, permettono alla poetessa di indagarsi. La
poesia fissa il processo conoscitivo e memoriale, costituisce una pausa dall’aritmia
dell’«esserci». È significativa la menzione, in Rosapineta, del
termine heideggeriano perché manifesta un ulteriore risvolto della silloge:
l’«essere nel mondo», la possibilità civile della parola che risiede non tanto e
non solo nella critica dei mali della società, quanto nell’estasi e nella
conoscenza della bellezza. Il viatico oltre il buio può apparire un ossimoro, ma
si tratta di una opposizione fittizia, perché anche la sera ha la sua luce, ci
ricorda la Toffanin, e in questa dimensione liminare la speranza fornisce un
varco: «Lontano la villa si dona / splendente d’oro nell’ombra. // La sera è
tutta un’offerta di luce».
L’aspetto naturale, paesaggistico e oggettivo è all’apparenza tale, in quanto
viene costantemente filtrato e si tramuta in correlativo simbolico, sino
all’unione tra Io o oggetto: «Il mare specchio ove il cielo s’imperla / in
collane di sue memorie bambine / e l’anima brivida commossa / si veste della
sera madreperla ». Un atteggiamento, quello evidenziato, coglibile non solo dai
temi, ma anche dai termini, e nel caso della citazione appena effettuata dalla
figura etimologica tra “imperla” e “madreperla”: la simbiosi è totale. Il senso
di appartenenza e il rifugio entro un alveo più vasto conducono alla coscienza
della piccolezza dell’uomo, della sua humilitas:
Umili
schegge di creta siamo talora a creste arroganti
tutte
rapprese nel mistero ora sospese nel cielo
ma
protese verso le tue braccia, o Dio
che
tanta fantasia ci hai ispirato antidoto all’abisso.
È possibile impreziosire la creta di cui siamo fatti attraverso la cultura,
perché essa vivifica. Al di là del ricordo personale, la poetessa quando parla
della sua permanenza a Milo, sulle falde dell’Etna, esalta la luce che proviene
dalla cultura, che limita le ombre della terra. Ma ulteriore spazio solare si
ricava dagli affetti, perché questo è anche un libro di sentimenti. A partire
dalle dediche, per proseguire con le poesie, crogiolo del recupero di figure non
più presenti o, ancora, fissaggio familiare, atto d’amore nei confronti delle
persone care, come i genitori, ad esempio. Esiste, nella lirica La gente del
fiume, una auto-analisi che fa emergere non solo la traslazione delle
topografie reali, ma anche l’imperitura essenza del cuore, che supera gli
ostacoli fisici e temporali.
Memorie
raccolte in stanze del cuore
insieme
a reti d’affetti
filate
tramate saldate
dal
fuoco dal sole dall’aria
mai
logorate dall’acqua del tempo
rinate
in vivo sentire
teneri
pioppi al risveglio d’aprile.
L’animo è, però, inquieto. Prendere coscienza della propria identità può
condurre allo smarrimento, verso il vuoto, che si badi bene non è da considerare
come nulla nichilistico, ma come risvolto della contraddizione. In tal senso
Maria Luisa Daniele Toffanin scrive: «E il vuoto tutto / chiama l’uomo / il suo
alito vitale / vento sferzante / contraddittorio / ma forte da strappare / il
velo opaco / dei fantasmi». L’ossimoro trova la sua sintesi nel superamento
dello status quo, così come le acque polesane che, al di là dello stallo
paludoso, hanno una propria foce. L’eterno inquieto («Ma questo è puro accidente
/ rimane certezza l’eterno inquieto / che ora si cela in quel suono notturno»),
dunque, trova uno sguardo protettivo:
Cosmo
materia morbida
sfumata
sinfonia d’azzurro-verde
preludio
di altri lontani spazi-attesa d’Eterno
ora solo
manto avvolgente e protettivo
al
fragile volo del corpo della mente.
Sono le liriche a chiusura della silloge che manifestano il senso sacro della
poesia: la vita è un privilegio, che va difesa ed amata, anche nelle
inquietudini, e sono i luoghi che permettono, alle volte, di coglierne
l’essenza.
La silloge di Maria Luisa Daniele Toffanin, Dal fuoco etneo alle acque
polesane, ha ottenuto il primo premio al Concorso Internazionale Il Convivio
2017 e «si presenta quale sinergica trasposizione poetica di un percorso
spazio-temporale – scrive Francesca Luzzio nella motivazione – che coinvolge la
Sicilia e il Veneto, proposto nell’espansione empatica che si genera tra gli
ambienti naturali e il sentire della poetessa che, con pregnanza semantica, sa
trasferire il pathos vissuto in versi di eccezionale bellezza, grazie anche ad
un ritmo sapientemente cadenzato, che coinvolge appieno il lettore».
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