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Prefazione a
L’uomo, Dio e l’infinito
di Pietro Nigro

Giuseppe Manitta
Citare
l’uomo, Dio e l’infinito nel titolo di una raccolta è una scelta impegnativa per
almeno due ordini di motivi: il primo sociologico, perché molti presumono che
una poesia mossa all’interno di questi perimetri sia necessariamente una
preghiera, una banalizzazione dell’ars poetica, ma come vedremo nel caso di
Nigro così non è; il secondo è propriamente tematico, perché affrontare simili
questioni significa scavare nelle profondità dell’Io, del suo rapporto con la
realtà e con la metafisica, in poche parole immergersi nel mistero della
vita.
Sin da subito si deve confermare che la poesia di Pietro Nigro non è
propriamente letteratura religiosa, per lo meno secondo quanto solitamente
s’intende, ma una scrittura metafisica e gnoseologica. Questo perché attraverso
i versi si cerca di indagare e dimostrare come da un nulla iniziale si è passati
a una forza che travalica il tempo, a un Dio che è Tutto, in cui la figura
paterna costituisce il nerbo stesso della rivelazione dei Vangeli.
Quando
l’autore parla di Gesù, infatti, ammette che il centro della sua natura sta
proprio nella frase “Padre nostro che sei nei cieli”. La missione del Figlio è
dunque sintetizzabile così: “La sua missione pertanto / fu di mutare il corso
degli eventi, / di cancellare tutto il male commesso / e riportare l’essere
umano / verso nuove mete”. Le nuove mete verso le quali siamo condotti sono un
vero proprio processo di “umanizzazione” e di osservazione dell’arcano che sta
al di sopra di noi. Un simile concetto squisitamente filosofico, sebbene non
scritto con le parole pocanzi usate, è evidente dalla lettura dell’opera e il
poeta avvia la sua contemplazione scrutando, in primis, se stesso, al fine di
cogliere le basi di una Volontà superiore: “Solo se un giorno nelle nostre menti
/ sarà immersa la vera idea / che la Volontà Suprema per ignota ragione /non
fornisce al nostro sapere, / allora capiremo”.
L’apertura della mente è
necessaria, dunque, per comprendere la verità, ma essa (e qui sta un altro
assunto filosofico) non è molteplice, liquida, inconsistente, cangiante: la
verità è una. Magari inconoscibile o solo intuibile, ma una sola. Tale
orientamento permette di individuare quanto la riflessione di Pietro Nigro sia
legata ai valori universali. Ammirare l’immensità, e quindi l’infinito, ma al
contempo ciò che sta oltre le coordinate temporali,significa superare, per certi
versi,il limite della finitudine: “L’immensità del cosmo / attrae la mia mente /
in un viaggio illimitato / fino alla porta del tempo. / Il mio pensiero vi bussa
/ come se qualcuno potesse aprirla. // Al di là di essa il
mistero”.
Assodati tali elementi,
bisogna considerare un altro aspetto: la realtà. Sarebbe fuorviante leggere il
libro solo attraverso i principi finora delineati. Ciò perché nella complessità
del verso è indubbio che venga inserito anche il contesto del singolo, ovvero la
quotidianità.
Quindi, se da un lato si ha il miraggio dell’Oltre, dall’altro c’è
l’Io nella sua turbolenza cronologica. La poesia, in questo senso, ha un ruolo
fondamentale perché da espressione dell’immagine può trasformarsi in vera e
propria consolazione. E’ lo stesso autore ad ammettere che essa gli è stata
conforto nei momenti più
difficili.
Esiste,
inoltre, una sorta di spartiacque nella silloge, che è rappresentato dalla
poesia lunga, una sorta di poemetto, dal titolo Un triste domani. Si
ripercorrono tre fasi essenziali: una prima felicità, i viaggi, la gioia delle
piccole cose; segue uno strappo, costituito dalla scomparsa della figlia
Gabriella; infine si presenta la ricerca di riprendere se stessi. Ripercorrere
attraverso il pensiero e la parola una simile tragedia fa trasparire una
commozione forte, totale.
La linea di rottura diventa una sorta di
sprofondamento dal quale però non viene meno l’idea di indagare. Il mistero
della vita e della morte, dunque, coinvolge non solo la
metafisica.
Non
possiamo dire che i versi di Pietro Nigro rientrino in una poesia civile, però
c’è una forte coscienza del mondo e della società. Ciò emerge in vari punti,
sino allo smarrimento delle illusioni, in cui si afferma di non pensare che il
mondo cambi. A questo punto non rimane che il silenzio, il quale (giungendo)
possa permettere di comprendere il nulla in cui viviamo. Ecco allora che si
realizza l’opposizione che sta alla base dell’opera.
Da un lato abbiamo il tutto
e l’idealità, dall’altro il nulla e la fine delle illusioni legati alla realtà.
L’Io con le sue tribolazioni sta nel mezzo. Forse, una soluzione esisterebbe per
attenuare il disagio collettivo: la riflessione. Nigro, afferma, infatti, che si
fa molto chiasso sulla vita, ma non la s’intende. Meditando sull’esistenza,
ciascuno può trovare una chiave per uscire dall’annichilamento e per contemplare
il tutto, almeno quello che che di esso compete all’uomo; è possibile che si
avvererà un’illuminazione: “ Si spalancò alfine quella soglia / (o lo credetti)
/ immensa fu la luce che m’invase / abbagliando i miei occhi, / s’illuminò la
mente / e accolsi l’ultimo Suo dono”.
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